Parigi - Per comprendere il mutamento che attraversa oggi il sacerdozio cattolico occorre uscire dalla tentazione dei numeri. Il problema non è stabilire quanti preti “mancano”, come si calcolerebbero insegnanti o medici in un sistema amministrativo. La logica ecclesiale è un’altra: il prete non nasce da un bisogno gestionale, ma da un appello. La Chiesa non ordina uomini perché servono statisticamente, ma perché Dio li dona.
Eppure, è vero che la figura del prete sta cambiando profondamente. I paesi di antica cristianità, come la Francia, erano abituati a un clero numeroso, giovane, radicato in un ambiente rurale compatto, quello stesso humus che per secoli aveva generato la maggior parte delle vocazioni. Il seminario minore esisteva dentro una cultura dove famiglia, parrocchia e società trasmettevano naturalmente la fede. La vocazione maturava come un prolungamento di un mondo in cui la religione era il respiro quotidiano. Quel modello è tramontato nel giro di una generazione. La Francia – e con essa l’Europa – è passata da un tessuto di paesi permeati dal cristianesimo a un universo urbano che ha dissolto tradizioni, relazioni, linguaggi. L’industrializzazione, le migrazioni interne, la secolarizzazione hanno spezzato la catena della trasmissione. In città nuove e anonime non c’era più la memoria cristiana radicata da secoli: famiglie derivate dal mondo rurale hanno perso gli strumenti che permettevano di consegnare la fede ai figli.
Il clero che aveva servito una società stabile si è trovato improvvisamente a vivere in un mondo che non riconosceva più né la sua funzione sociale né il suo linguaggio. I preti del Novecento – spesso poverissimi, isolati, fedeli fino all’eroismo – hanno portato sulle spalle questa frattura. Molti venivano ancora dal mondo rurale, formati in un ambiente che dava al sacerdozio un’aura di stima, nonostante le ostilità culturali. Servivano comunità che non frequentavano più la Chiesama continuavano a chiedere battesimi, funerali, riti che testimoniavano una memoria cristiana profonda anche quando la pratica era scarsa.
Oggi il quadro è cambiato ancora. Le vocazioni che giungono all’ordinazione non sono più adolescenti cresciuti nei seminari minori. Sono uomini adulti, spesso con studi universitari, professioni, percorsi complessi. Molti sono “convertiti” nel senso più ampio del termine: non provengono da famiglie estranee alla fede, ma hanno vissuto in un mondo dove il cristianesimo non è più ambiente naturale. La decisione maturata è frutto di un cammino personale, affrontato talvolta dopo anni di ricerca, crisi, lavoro, vita sociale. Questa nuova generazione porta con sé ricchezze e limiti inediti. Ha un contatto diretto con la cultura contemporanea, conosce il linguaggio delle città, comprende la frammentazione delle biografie moderne. Ma in molti casi non ha ricevuto la formazione religiosa capillare che un tempo era spontanea nelle famiglie e nelle parrocchie. Entrano in seminario da adulti, con intuizioni forti e convinzioni autentiche, ma anche con lacune da colmare e un linguaggio ecclesiale tutto da imparare.
Il risultato è un clero più scarso numericamente, ma spiritualmente più eterogeneo. In molte diocesi ci sono preti che arrivano da contesti opposti: gli anziani, cresciuti nella cristianità rurale, e i giovani, provenienti dalle metropoli secolarizzate. Manca spesso la generazione intermedia, quella che avrebbe garantito un passaggio più morbido. Questa discontinuità spiega perché il cambio della tipologia di preti non è solo sociologico, ma anche culturale e psicologico.
In mezzo a tutto questo, una certezza rimane: il prete non nasce per replicare un modello sociologico, ma per annunciare il Vangelo nel mondo reale in cui la Provvidenza lo colloca. Non si tratta di rimpiangere un passato idealizzato né di forzare forme nuove: la questione decisiva è comprendere che un’epoca urbana, mobile, frammentata richiede un clero che sappia vivere la stessa radicalità evangelica in condizioni radicalmente diverse. Ciò non dipende da strategie, ma dalla fedeltà alla propria vocazione battesimale: una Chiesa che vive il Vangelo genera i preti di cui ha bisogno. E il volto del prete che emerge oggi – adulto, plasmato da storie diverse, immerso nella città, capace di attraversare la complessità – non è un ripiego. È la risposta che lo Spirito sta offrendo a una civiltà che cambia.
p.G.A.
Silere non possum