«Ecco quanto è buono e quanto è soave
che i fratelli vivano insieme!
È come olio profumato sul capo,
che scende sulla barba,
sulla barba di Aronne,
che scende sull’orlo della sua veste».
(Salmo 133,1-2)

In questo giorno santo, in cui la Chiesa si raccoglie nella preghiera per meditare sul dono del sacerdozio ministeriale, desidero soffermarmi su due aspetti fondamentali della vita sacerdotale. È un’occasione preziosa per ringraziare Dio per questo ministero, ma anche per guardare con onestà e coraggio alle sue fragilità. Questa mattina, nel Duomo di Milano, sono risuonate con forza e dolore le parole dell’Arcivescovo Mario Delpini: “Il comportamento scandaloso di alcuni di noi preti diventa una ferita per tutto il presbiterio, e tutti ne siamo umiliati; in qualche modo avvertiamo che è incrinata la fiducia verso tutti noi.”

Parole che toccano il cuore, che chiamano alla riflessione e non possono lasciarci indifferenti. Perché accadono certe cose? Perché si verificano certe derive?

È evidente che certi comportamenti non nascono dal nulla, ma sono il frutto di una vita sacerdotale vissuta male, senza radicamento spirituale, senza relazioni autentiche. Pensiamo a quei preti che si buttano nell’attivismo dell’oratorio fino ad esserne risucchiati, a chi si rifugia in un estetismo liturgico vuoto, a chi non riesce a stabilire legami profondi, fedeli e duraturi. Ci sono presbiteri che non sanno accettare la diversità dei confratelli e vivono in un clima di chiacchiere, giudizi, chat e confronti sterili. Tutti questi atteggiamenti sono sintomi di una medesima crisi interiore.

Non si tratta solo di cadute eclatanti, ma di un lento logorarsi dell’anima, che spesso nasce da una incapacità di entrare in relazioni adulte, vere, consenzienti e impegnative. Relazioni che esigono maturità, confronto, pazienza e verità. Quando si evita questo cammino, si cercano scorciatoie, fughe illusorie, che possono sfociare in comportamenti distorti, fino a forme di abuso. Nessuno di noi è totalmente immune da queste fragilità, come nessun uomo nella società lo è. Ma riconoscere i segnali di malessere è un atto di verità. E anche quando non si tratta di delitti canonici o civili, come ha ricordato Delpini oggi, restano comunque ferite profonde per la gente, che si aspetta da noi coerenza, parola evangelica, vita trasparente.

“Anche se non è considerato un delitto perseguito dall’ordinamento canonico o civile – ha detto l’Arcivescovo – è però sempre una ferita per la gente che si aspetta una parola e una vita di vangelo, è una ferita per tutto il presbiterio, per tutto il clero, per le comunità.”

Riconciliati con Dio e con gli amici

Ci sono due antidoti fondamentali: l’amicizia con Gesù e l’amicizia con gli altri. Due pilastri essenziali che, purtroppo, spesso trascuriamo o, peggio ancora, travisiamo del tutto.

Il primo passo è coltivare un’amicizia autentica con il Signore. Significa tornare a Lui, restare fedeli nella preghiera e celebrare con costanza l’Eucaristia quotidiana, anche durante le vacanze. Ma la fedeltà a Cristo non si esaurisce nel culto: si manifesta anche e soprattutto nell’amore verso gli altri.

Un amore vero, concreto, capace di distinguere e valorizzare le relazioni. Non tutte le relazioni sono uguali, anche se per anni ci è stato detto il contrario. Frasi come “Amo tutti allo stesso modo” o “Voglio essere amico di tutti” sembrano nobili, ma si rivelano vuote e spesso false. Chi le pronuncia finisce per non amare davvero nessuno, incapace di riconoscere la bellezza e l’unicità di ogni legame. Gesù stesso non trattava tutti allo stesso modo: con alcuni amici era più intimo, con altri condivideva lacrime, con altri ancora viveva un amore più profondo. Sapeva che ogni relazione ha un volto, un ritmo, una verità propria. Ed è questo che siamo chiamati a riscoprire. Oggi, fortunatamente, questa consapevolezza sta iniziando a farsi strada. Anche il Dicastero per il Clero sta riflettendo su questi temi, arrivando perfino a presentare un libro — scritto da una professionista — che affronta il tema delle relazioni per i sacerdoti, senza citare, nemmeno una volta, Amedeo Cencini. È un segno importante, un cambio di paradigma. Forse siamo davvero a una svolta.

L’epoca delle relazioni finte, spersonalizzate per istituzione, potrebbe finalmente volgere al termine.
Ma perché ciò avvenga, dobbiamo intraprendere cammini che siano sì comunitari, ma anche profondamente personali. Quel modello formativo, oggi finalmente messo in discussione, ci aveva insegnato il contrario: tutte le relazioni dovevano essere uguali, mai troppo affettuose, mai lasciarsi coinvolgere, guardarsi bene dalle “amicizie particolari”. Un’impostazione che ha generato abusi, violenze, depressioni, burnout, scandali. Perché? Perché aveva disumanizzato il prete, costringendolo a fingere di non essere uomo. E invece no. Il prete è prima di tutto un essere umano. È chiamato a vivere la propria umanità, con le sue fragilità, e proprio in questo può trovare equilibrio, serenità, maturità. Un prete riconciliato con se stesso non cercherà mai conforto in relazioni sbagliate, immature o distruttive. Saprà trovare il suo compimento in legami adulti, liberi e autentici.

L’amicizia, quando nasce alla luce della fede, è molto più di un legame umano: è un dono sacro, una benedizione che scende dall’alto, come l’olio prezioso versato sul capo del sommo sacerdote. Il salmista, nel salmo che abbiamo citato in apertura, ci offre un’immagine straordinaria: un olio profumato che parte dalla testa e scende, abbondante, fino all’orlo delle vesti, impregnando tutto con il suo profumo e la sua luce. Una immagine che oggi ci deve far riflettere ancor di più che negli altri giorni.  Così è l’amicizia secondo il cuore di Dio: non resta in superficie, ma penetra, unge, consola, illumina. È segno dello Spirito Santo che agisce attraverso le relazioni vere, fatte di fiducia, sincerità e presenza. Come l’olio, l’amico vero non grida, ma lenisce; non si impone, ma accompagna; non brucia, ma riscalda e dà luce.

Nel Vangelo delle dieci vergini (Mt 25,1-13), l’olio nelle lampade è ciò che mantiene viva la luce nell’attesa dello Sposo. L’amicizia ha lo stesso potere: nutre la speranza, sostiene la veglia, illumina il cammino. Senza olio, la fiamma si spegne. Senza amicizia, anche la fede rischia di raffreddarsi, di diventare solitudine. San Giovanni dice: "Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede"

Ma l’amicizia è anche un luogo fragile, che si regge su una parola preziosa: fiducia. La fiducia è come l’olio più puro: difficile da ottenere, facile da perdere. È ciò che rende un’amicizia forte come roccia, o, se tradita, dolorosa come una ferita profonda. Anche Gesù ha conosciuto il tradimento da parte di un amico. Giuda, che aveva condiviso il pane con Lui, lo ha tradito con un bacio. Eppure, Gesù non ha mai smesso di amare. Ci insegna che anche nel dolore del tradimento, l’amore vero non si chiude, non si vendica, ma continua a versare olio sulle ferite. Ciò che è necessario fare è portare nella preghiera anche il tradimento e allontanarsi per rispettare anche la scelta di chi tradisce. 

L’amicizia cristiana, però, è chiamata a essere fedele e misericordiosa: capace di custodire la fiducia, ma anche di rialzarsi quando questa viene ferita. 

L'Arcivescovo questa mattina ha concluso l'omelia ricordandoci: "Siamo santi non perché siamo privi di difetti e di peccati ma perché la santità di Dio continua ad attrarci a sé e a renderci uniti al suo figlio Gesù. E proprio in Gesù noi riceviamo la gioia di essere consacrati, che oggi siamo qui a celebrare insieme. E proprio in Gesù riceviamo il nostro proposito di essere santi, in questo “oggi”. Siamo consapevoli, quindi, che questo è il cammino che dobbiamo percorrere senza ideologie o fiabe. Si può cadere, ci si deve rialzare. L'importante è avere chiara la meta. 


d.L.V.
Silere non possum