«Messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà». Così san Paolo VI sintetizzò Benedetto. Non un santino per tempi difficili, ma un criterio di discernimento: dove lui passa, nascono legami, fioriscono comunità, si scioglie la tentazione di fare della fede una barricata.

Benedetto non ha “inventato” la comunione come slogan: l’ha resa abitabile. La sua scelta del monastero non fu fuga dal mondo, ma conversione dello sguardo sul mondo per poterlo servire meglio. È la differenza, sempre attuale, tra il rifugio e la forma: una vita condivisa, regolata, capace di generare popolo. La Regola non è un codice per pochi, ma l’architettura minima della convivenza evangelica: ascolto, obbedienza reciproca, lavoro, preghiera, responsabilità dell’uno per l’altro. «Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore», si legge già nel Prologo: la comunione non si improvvisa, si impara - nella concretezza delle ore, dei pasti, delle decisioni. Se comunione è una parola logora, Benedetto le restituisce peso con tre mosse.

Dalla solitudine alla pubblicità del Vangelo.

Il tempo dello Speco non fu misantropia. Fu il passaggio necessario per diventare capace di pace intorno a sé. La Vita di Gregorio ricorda che, maturato nella lotta interiore, Benedetto «decise di fondare i primi monasteri»; e che il trasferimento a Montecassino aveva un carattere simbolico: il monastero non si nasconde, dà visibilità alla fede come forza di vita, fonda un luogo che irradia. Per questo attorno a lui la gente si raduna, si riconcilia, ricomincia. Non nasce una setta che seleziona i “giusti”, ma una casa che educa alla carità concreta e stabile.

La comunione come stile di governo e di parola.

Il capitolo III della Regola chiede all’abate di «consultare la comunità» e di ascoltare «perché spesso è al più giovane che Dio rivela la soluzione migliore»: qui la comunione prende corpo in una prassi di discernimento condiviso, lontana dalla contrapposizione tra capi e popolo, tra “fedeli veri” e “pastori infedeli”. L’abate «tiene le veci di Cristo», ma deve aiutarepiù che dominare; il fratello obbedisce non come suddito spaventato, bensì come chi mette Cristo sopra le preferenze personali. È un’ecologia delle relazioni che disinnesca la zizzania e impedisce a chiunque - abate compreso - di costruire feudi.

La fraternità come economia e misura del desiderio.

La Regola è severa con il “vizio” della proprietà e con le appropriazioni di beni, ruoli, onori; distribuisce il necessario e pone i poveri, gli infermi, i vecchi, i piccoli al centro. Non c’è comunione senza un lavoro che unisce le mani, senza un limite dato al possesso, senza la correzione fraterna che cura senza umiliare. Qui si comprende perché san Paolo VI, proclamandolo Patrono d’Europa, parlò di croce, libro e aratro: culto, cultura e lavoro come grammatica di popolo. È questa tessitura minuta che rende le comunità «di ampio respiro», non recinti identitari.

La comunione, in Benedetto, non è gentilezza di superficie. È un ordine dell’amore: «non anteporre nulla all’amore di Cristo», «cercare la pace e seguila», educarsi al “buon zelo” che preferisce l’altro a sé (il celebre capitolo 72). È qui che il monastero diventa faro di umanità: un luogo dove la preghiera (l’opus Dei) non sottrae alla realtà, ma la lega - lega tempi, mestieri, memorie, lingue, popoli. Non sorprende allora che l’Europa nasca come unità spirituale e culturaleprima che politica: un tessuto di case oranti e laboriose che salvano libri, dissodano campi, ricuciono convivenze. È l’“aurora di una nuova era” che san Paolo VI vide sorgere da Montecassino: non propaganda, ma forma di vita che persuade.

C’è un tratto, poi, che inchioda ogni caricatura: Benedetto obbedisce alla Chiesa. Non brandisce il monastero come manifesto contro i “legittimi pastori”, non costruisce altari contro altari, non esaspera le differenze per contarsi addosso. La Regola, in più punti, educa a rientrare nell’ordine quando l’ego vuole spaccare (cap. 5 sull’obbedienza; cap. 69-70 contro lo spirito di contesa; cap. 71 sull’obbedienza fraterna). La comunione che chiede ai suoi non è ideologica: è ascetica. Esige silenzio, autocontrollo, preferenza dell’altro, capacità di perdonare prima del tramonto. È così che si spegne la miccia delle appartenenze tossiche.

E i beni? Il prestigio? La Vita è spietata con chi cerca di usarlo: quando gli invidiosi attentano alla sua vita, Benedetto non arma fazioni, se ne va. Quando guida, corregge; quando non serve, si ritira per non perdere la purezza dello sguardo. Non si fa guru di una setta, non traffica consenso, non compra alleanze: «abitava con se stesso sotto lo sguardo di Dio», dice Gregorio, e per questo poteva generare pace intorno a sé. È la libertà interiore a renderlo padre di molti - non il potere.

Benedetto XVI ha letto con rara lucidità questa dinamica: l’uscita da Subiaco verso Montecassino segna il passaggio dalla clausura necessaria alla testimonianza pubblica - la fede come forza di vita che si vede. L’“opera” di Benedetto è proprio questo: far nascere comunità che prendono sul serio la liturgia, il lavoro, lo studio, la cura reciproca; comunità aperte, perché un monastero, quando è vivo, non chiude, attira. Non demonizza il mondo: lo trasfigura. È qui il segreto dei monasteri come fari di umanità: non per propaganda, ma perché custodiscono la misura dell’umano, dove il tempo è pregato, la terra è lavorata, la fragilità è onorata, la parola è pesata. Allora la domanda che ci interroga oggi - Chiesa, città, movimenti, parrocchie - è semplice e scomoda: la nostra maniera di credere genera comunione o produce sette? Abbiamo comunità dove si consulta davvero “anche il più giovane”, dove l’autorità aiuta più che dominare, dove la proprietà non decide le relazioni, dove si ricompone prima del tramonto?  Quando fondiamo nuovi monasteri o comunità, dovremmo domandarci con sincerità: siamo davvero uomini di comunione, oppure - magari in nome della purezza e della verità - seminiamo zizzania, contrapponendo clero e fedeli, comunità civili e religiose, “giusti” e “non giusti”? C’è sempre il rischio, nelle nostre comunità, di costruire piccoli mondi chiusi, nei quali non ci si ritira per stare con il Signore, ma per difendersi dagli altri, da chi ci mette in crisi, da chi Dio stesso ci manda per educarci a quell’amore che troppo spesso restiamo capaci solo di proclamare.

San Giovanni è netto: «Se uno dice: “Io amo Dio”, ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede». È lì che si misura la verità della nostra fede: nell’incontro con il fratello concreto, non nell’illusione di una perfezione solitaria.


Eppure, quante volte ci convinciamo di essere gli unici giusti, gli unici a “celebrare nel rito veramente valido”, gli unici a “vivere la vera vita di San Benedetto”. Non ci accorgiamo che così replichiamo una caricatura, una parodia di ciò che Benedetto stesso fu. Egli non avrebbe mai rinchiuso la grazia in una forma, né la fedeltà in un formalismo. La Regola non è un fossile da custodire, ma una via da incarnare. Oggi lo stesso Benedetto non applicherebbe alla lettera alcune norme del suo tempo - basti pensare al dormitorio comune - perché la sua fedeltà era al Vangelo, non a ideologie.

Il santo monaco visse pienamente nel suo tempo, e le sue scelte - come quelle di Francesco d’Assisi e di tanti altri santi - portavano inevitabilmente i segni di quell’epoca. Ma Benedetto ci insegna anche una sana elasticità, che si manifesta soprattutto nelle relazioni. Basti pensare all’episodio di Santa Scolastica, che lo invita a fermarsi nonostante la sua regola e il suo programma prevedessero di tornare al monastero. Ella lo supplica, e supplica Dio stesso, perché resti ancora un po’ con lei - e alla fine vince l’amore. L’insegnamento di Cristo non è mai un freddo formalismo, ma amore incarnato. E se, per amore, facciamo un’eccezione, il Signore si rallegra di quel gesto più che della nostra rigida osservanza. È vero: a mezzogiorno possiamo avere la preghiera, l’Angelus; ma Benedetto ci ricorda che ogni uomo che bussa alla nostra porta è Cristo stesso. E allora, se suona la campana per l’Angelus e, nello stesso momento, qualcuno bussa alla porta, dove sarà più autentico il mio culto? Nel coro a recitare l’Angelus o nell’aprire la porta al Signore che viene a visitarci?

Essere figli di Benedetto, allora, significa questo: lasciarsi purificare dallo spirito della comunione, che non teme il diverso, non idolatra la forma, non fugge la storia, ma la abita come luogo in cui Dio ancora ci visita. La Regola, definita “minima” dal suo autore, chiede poco e tutto: una misura umana capace di durare. Non è nostalgia di medioevo; è un criterio per verificare se i nostri progetti spirituali sono Chiesa o sette.

Benedetto non voleva denaro né potere; voleva Dio - e per questo ha dato un volto all’Europa. La sua comunione non è sottomissione forzata, è sinfonia: voci diverse accordate a un bene più alto. La si impara dove ogni giorno si ricomincia, nella “scuola del servizio” che insegna a lavorare, pregare, pensare, ascoltare, perdonare. È poco? È moltissimo. È ciò che permette a ogni comunità cristiana -monastero, parrocchia, famiglia, redazione - di non diventare il recinto dei convinti, ma il luogo in cui la verità si comunica per presenza e il Vangelo prende corpo in fraternità.

Se domani qualcuno ci chiedesse che cosa resta di Benedetto, converrebbe rispondere senza retorica: restano le comunità che sanno ancora generare comunione. E dove questo accade, c’è già un’Europa più vera.

Marco Felipe Perfetti 
Silere non possum