Martedì 22 luglio 2025 la Corte d'Appello dello Stato della Città del Vaticano ha depositato la sentenza con la quale respinge le domande di Libero Milone e degli eredi di Ferruccio Panicco contro la Segreteria di Stato della Santa Sede. La causa ruotava intorno alla presunta invalidità delle dimissioni dei due ex revisori, che sostenevano fossero state estorte attraverso metodi intimidatori posti in essere da alcuni dirigenti della Gendarmeria Vaticana, su richiesta esplicita dell’allora Sostituto della Segreteria di Stato, Angelo Becciu.

Tale circostanza, peraltro, è stata confermata in modo maldestro dall’allora Monsignor Angelo Becciu il quale riferì alla stampa: “Se Milone non si fosse dimesso lo avremmo perseguito penalmente”. Un modo alquanto goffo per riferire di aver estorto le dimissioni dell’ex revisore dei conti.

La vicenda

Il 5 giugno 2015, Papa Francesco nominava Libero Milone primo Revisore Generale della Santa Sede, con un mandato quinquennale. Per diversi mesi, Milone poté incontrare regolarmente il Pontefice, con una frequenza analoga a quella dei capi dicastero: circa una volta ogni quattro settimane. Ma ad aprile 2016, qualcosa cambia radicalmente: gli viene impedito di vedere il Papa. Da allora, ogni richiesta di colloquio viene ignorata. Il 18 giugno 2017, la Gendarmeria Vaticana fa irruzione nel suo ufficio. Poco prima, i computer personali di Milone e della sua segreteria erano stati manomessi e infettati con un software spia installato in modo totalmente illecito. Il giorno seguente, 19 giugno, Milone viene sottoposto a un interrogatorio di 12 ore, al termine del quale è costretto a firmare le dimissioni sotto minaccia di arresto. Le accuse a suo carico? Aver usato fondi del suo ufficio per incaricare una società esterna di verificare la sicurezza informatica, aver svolto indagini considerate “improprie” rispetto allo statuto dell’Ufficio del Revisore, e aver esaminato situazioni legate a ecclesiastici di alto rango senza autorizzazione. Accuse che, di fatto, non hanno mai avuto seguito giudiziario né riscontro documentale.

Chi invece lo ha accusato, ha dimostrato molto concretamente di cosa fosse capace. Domenico Giani, all’epoca comandante della Gendarmeria Vaticana, è stato allontanato in seguito a uno scandalo che lo ha visto coinvolto nell’uso personale di fondi del Corpo per la ristrutturazione del proprio appartamento. Sotto la guida di Domenico Giani, la Gendarmeria Vaticana ha progressivamente assunto i tratti di un corpo opaco, con una deriva militarista e autoritaria, popolato da soggetti spesso privi di formazione adeguata e animati da ambizioni di potere più che da senso istituzionale. Il rispetto dovuto alle figure ecclesiastiche – anche solo sul piano formale – viene regolarmente disatteso. Fu lo stesso Giani a consentire la diffusione delle fotosegnaletiche di alcuni dipendenti ed ecclesiastici coinvolti in un procedimento penale interno, violando ogni garanzia di riservatezza e alimentando un clima di intimidazione.

La decisione della Corte

Nonostante il Tribunale abbia riconosciuto che Milone e Panicco avessero effettivamente un contratto in essere e che le loro dimissioni avvennero in circostanze contestabili, la Corte ha affermato che le responsabilità degli eventuali abusi andrebbero imputate direttamente ai singoli soggetti della Gendarmeria coinvolti, i quali non erano stati citati in giudizio. In altre parole, la responsabilità civile della Segreteria di Stato è stata esclusa perché gli atti contestati non sarebbero stati ordinati formalmente dalla stessa.

Ma come si può affermare una assurdità del genere?

In Vaticano non mancano soltanto persone che ignorano platealmente il diritto vaticano e non hanno mai aperto un libro di diritto canonico – come dimostra il caso di Alessandro Diddi – ma vi sono anche figure che, nel tentativo di essere più realiste del re, finiscono per trascinare la Santa Sede e il Santo Padre in situazioni imbarazzanti e potenzialmente irreparabili. Davvero si vuole sostenere che un semplice cittadino possa disporre della forza pubblica come accaduto nei confronti di Libero Milone e Ferruccio Panicco, senza alcuna responsabilità istituzionale formale? Una simile tesi non solo è giuridicamente insostenibile, ma mina la credibilità stessa dell’ordinamento vaticano. Inoltre, è credibile che ufficiali di polizia obbediscano alle richieste di una persona a caso? 

Questa sentenza, pur chiarendo alcuni profili procedurali e giurisdizionali, lascia irrisolte questioni di merito tutt’altro che marginali. La più urgente: esiste, o è mai stato avviato, un procedimento penale nei confronti di Angelo Becciu per i fatti oggetto della presente controversia? Non si può dimenticare che il metodo usato da Becciu nei confronti di Milone e Panicco — pressioni, isolamento, rimozione forzata — è lo stesso che, qualche anno dopo, si è ritorto contro di lui, quando fu costretto a dimettersi per volontà diretta del Papa. È il paradosso di chi esercita il potere senza misura, convinto di poter agire senza dover rendere conto a nessuno. Ma in Vaticano, qualcuno dovrebbe finalmente comprendere che l’arroganza istituzionale non è mai un investimento duraturo. Oggi il potere permette di colpire, domani espone a essere colpiti. È questa la dinamica inevitabile quando si rinuncia a far valere con coerenza le procedure, il diritto, e il principio — elementare ma spesso disatteso — che la legge deve valere per tutti.

Inoltre, esiste un procedimento penale nei confronti dei funzionari della Gendarmeria Vaticana che, secondo le tesi della Corte, avrebbero agito su indicazione di un privato cittadino, perseguendo interessi personali e non istituzionali?
La risposta, lo possiamo dire noi, è no. Nessuna indagine risulta avviata. E del resto non sorprende: Alessandro Diddi, attuale Promotore di Giustizia, ha già dato prova di non saper seguire nemmeno la più elementare logica deduttiva, per non parlare del diritto vaticano, di cui dimostra quotidianamente una conoscenza approssimativa e arbitraria.

Un punto cieco strategico

Ma il punto è un altro, ben più grave e strategico: quale professionista serio sarebbe disposto a lavorare oggi nelle istituzioni vaticane, sapendo che il sistema tollera — e addirittura protegge — abusi di potere, arresti senza base legale, rimozioni forzate, minacce e ricatti? In un contesto in cui la tutela giuridica sembra essere l’eccezione, e non la regola, il rischio non è solo quello di ingiustizie individuali, ma di una fuga generalizzata delle competenze. Chi mai si affiderebbe a uno Stato che tratta i propri collaboratori come pedine sacrificabili, senza garanzie né giustizia?

Silere non possum ha più volte denunciato il fenomeno di quelle “signorine” — spesso molto loquaci anche sui social — che si vantano di “entrare in Vaticano”, di “frequentarlo”, come se fosse un titolo onorifico. Alcune di queste persone sono state anche tristemente ordinate. Ma la domanda vera, oggi, è un’altra: chi, tra le persone serie, avrebbe ancora interesse a frequentare questo Stato in un clima come questo?

La risposta è semplice: lo frequentano ormai solo individui in cerca di visibilità, affamati di selfie e riconoscimenti simbolici, chi vuole fare la benzina a qualche centesimo in meno, oppure personaggi privi di competenze e spirito critico, che proprio per questo non rappresentano alcuna minaccia all’equilibrio opaco — talvolta mafioso — che si respira tra le mura leonine. Gli altri, quelli dotati di un minimo di intelligenza, autonomia e senso del dovere, lo frequentano con molta meno “eccitazione”. E non a torto.

Nessuno mette in discussione le ragioni che possono aver condotto a chiedere quelle dimissioni. Ma se esistono prove concrete di atti illeciti compiuti da una persona — tanto più se si tratta di un alto funzionario — la via corretta è il processo, non il ricatto. Si agisce nelle sedi opportune, non con microspie installate illegalmente, computer violati senza alcun mandato e ricatti durante blitz punitivi. 

C’è chi oggi si atteggia a “curato bonario di campagna”, lasciando ad altri il compito di alzare la voce e sentenziare. C'è chi ha condotto una vera e propria guerra con l'ex Sostituto e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma viene da chiedersi: dov’è Cristo in tutto questo? Prendere delle persone, diffamarle e calunniarle pubblicamente, delegittimarle e impedire loro anche di poter lavorare, senza prove, senza processo, senza uno straccio di riscontro concreto: può tutto questo accadere nel cuore della Chiesa? E per volontà di chi? Di un “privato cittadino” – così viene definito, con ironico candore – che ha usato la Gendarmeria per scopi personali? È uno Stato di diritto o siamo ormai nel Far West?

Ciò che la Corte si rifiuta di riconoscere è che Angelo Becciu ha agito proprio in quanto Sostituto della Segreteria di Stato. Non si è trattato di un’iniziativa personale, ma dell’applicazione di un modus operandi consolidato, ereditato da chi lo ha preceduto e replicato da chi oggi occupa quel medesimo incarico. Il problema è che questo modo di agire non trova alcun fondamento nelle norme vigenti: è frutto di una prassi distorta, sintomo di un sistema malato. Un sistema che Becciu stesso ha finito per sperimentare — e subire — quando, cambiati i rapporti di forza, si è ritrovato dall’altra parte dello steccato.

Ma finché mancherà il coraggio di riconoscere i propri errori, la Santa Sede resterà prigioniera di un circolo vizioso che, con cadenza regolare, la trascina – insieme alla stessa immagine del Papa che in realtà dovrebbero tutelare – sulle pagine di tabloid e giornali scandalistici.

p.E.A.
Silere non possum