Ognuno porta dentro zone d’ombra che preferisce non vedere. Ma quelle ombre trovano sempre il modo di uscire: proiettandosi su volti, gesti, persone. È così che l’altro smette di essere un incontro e diventa un bersaglio, una superficie su cui disegnare il proprio non detto. Lo vediamo ogni giorno, soprattutto sui social. Persone che commentano sotto i post di altri - spesso di chi è più esposto - proiettando su di loro le proprie frustrazioni, desideri, invidie. Scrivono come se parlassero dell’altro, ma in realtà raccontano sé stessi: ciò che vorrebbero, ciò che temono, ciò che non riescono ad accettare.

Ma non accade solo online. Nelle nostre comunità, fra laici e chierici, capita di incontrare persone che si improvvisano interpreti della vita altrui: “Lui pensa questo”, “lei vorrebbe quello”, “secondo me farà così…”. Parole che dicono più di chi parla che di chi viene descritto. In realtà, è sempre un modo per liberarsi del peso della propria interiorità, scaricandola su un altro volto. Soprattutto negli ultimi tempi mi è capitato di soffermarmi a leggere i commenti sotto alcuni post pubblicati da persone che, troppo spesso, sono diventate bersaglio di gruppi di estremisti o di individui con evidenti fragilità psicologiche. Da lì, quasi per curiosità, ho iniziato a cercare altri contenuti: post, reel, video. E, sorprendentemente, ho ritrovato sempre le stesse persone, che scrivevano sempre le stesse cose. A quel punto mi sono posto una domanda semplice: «Ma se passo davanti a una vetrina e ciò che vendono non mi piace, che cosa faccio? Mi fermo davanti alla vetrina per dire a tutti che mi fa schifo quello che espongono? O addirittura entro nel negozio per dire al commesso: “No, guardi, quello che lei vende mi fa cagare”?» Non credo affatto. Eppure, sui social, facciamo proprio così.

Se un video non mi interessa, se un post non mi piace, non sono obbligato a guardarlo
: posso scorrere oltre, posso bloccare il creator, posso semplicemente fare altro. E invece qualcuno vive come se il senso stesso della propria esistenza consistesse nell’odiare gli altri, nel riversare all’esterno ciò che non riesce a sopportare di sé. E oggi, purtroppo, non si tratta più solo di una minoranza.

Sotto certi post, ad esempio, compaiono commenti di persone che si autodefiniscono “difensori della vera fede”: «La Messa antica è l’unica vera», «la liturgia autentica è solo in latino», «no alla comunione dei divorziati risposati», «i peccati contro la carne sono gravissimi», e così via. Ma basta scorrere appena un po’ per rendersi conto che in molti di quei messaggi la carità è completamente assente.

Ci sono persino persone che, pur essendo esse stesse omosessuali, accusano gli altri di “avere desideri sui bellocci”; che, pur vivendo gravi incapacità relazionali in parrocchia — al punto da essere spesso emarginate dallo stesso presbiterio — si accompagnano a ragazzi irrisolti che gravitano attorno agli ambienti ecclesiali e politici; e che, infine, nascondendosi dietro una talare, insultano e giudicano i loro confratelli sui social network.

Più volte, nel nostro gruppo di amici, ci siamo accorti che quasi sempre, quando qualcuno commenta sotto un post, non sta parlando dell’altro, ma di sé stesso. Non è una frase fatta, né un mantra consolatorio: è semplicemente la realtà. E questo dovrebbe, in un certo senso, rassicurare chi diventa bersaglio di queste shitstorm: il problema non sei tu — il problema è loro.

Jekyll e Hyde: l’ombra che abitiamo

Stevenson lo aveva intuito con precisione chirurgica. Il dottor Jekyll, deciso a separare la sua parte luminosa da quella oscura, finisce per creare Mr. Hyde, la creatura che incarna ciò che rifiuta di riconoscere. Hyde è la sua proiezione: il male negato che prende corpo. Anche nel nostro tempo, ogni volta che neghiamo ciò che ci disturba in noi stessi, quel “Hyde” ritorna in forma di sarcasmo, giudizio, insulto o sospetto verso l’altro.

In Otello, Shakespeare porta la proiezione fino alla tragedia. Iago proietta la propria mediocrità su chi lo supera, e Otello, travolto dal dubbio, vede in Desdemona il tradimento che nasce dalla sua insicurezza. È il male che immagina, non quello che accade, a condurlo alla rovina. La gelosia di Otello non è altro che il riflesso del suo timore di non essere amato: l’altro diventa il teatro della propria paura. Amleto, invece, costringe gli altri a guardarsi. Con la rappresentazione della morte del padre, tende a Claudio uno specchio in cui la colpa si rivela da sé. Ma anche Amleto non è immune dal rischio di riflettere sugli altri la propria indecisione: il mondo intero diventa lo specchio del suo tormento. In lui la proiezione si trasforma in domanda: chi siamo, quando guardiamo l’altro?

Guardarsi nello specchio

Jekyll, Otello e Amleto raccontano, in modi diversi, la stessa verità: l’uomo non sopporta di vedersi. E allora inventa maschere, sospetti, accuse, fino a confondere il proprio volto con quello che condanna. Forse, invece di inseguire nuovi dogmi, nuove proclamazioni o nuove apparizioni, dovremmo tornare a sfogliare i libri dei santi, che insegnano a rivoluzionare lo sguardo e a purificarlo, a mortificare la lingua prima di ferire, a metterci in discussione, a crescere umanamente prima ancora che spiritualmente. Perché, in fondo, dietro il commento astioso lasciato sotto il post di un prete che neppure conosciamo, non si nasconde un problema di fede, ma una ferita infantile mai guarita.

M.P.
Silere non possum