«La pace sia con voi!». L’8 maggio 2025 Leone XIV ha consegnato alla Chiesa e al mondo le sue prime parole pubbliche: non uno slogan, ma le parole di Cristo, riprese nella forma più semplice e più esigente, quella della benedizione che sgorga dal Risorto. Al termine di quest’anno desideriamo rendere grazie al Signore: lo faremo questa sera davanti al Santissimo Sacramento, con la grazia particolare di chiudere il 2025 dentro una Chiesa particolare piccola nei numeri - poco più di 145 mila fedeli - ma chiamata, proprio per questo, a custodire con maggiore responsabilità la comunione, la pace delle parole e la verità delle relazioni.

Canteremo il Te Deum e lo faremo perché in un tempo in cui la parola è spesso diventata arma, ci hai donato un Successore di Pietro di cui la Chiesa aveva infinitamente bisogno. Te Deum laudamus perché il Papa ha scelto di inaugurare il pontificato con una parola che disarma. Ha chiamato per nome una pace che non coincide con un equilibrio di forze né con una tregua fragile: «una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante», radicata nell’amore di Dio, offerta prima ancora che negoziata. In questa espressione c’è già un criterio per giudicare il 2025: la pace non è un tema tra gli altri, è la verifica della qualità evangelica delle nostre relazioni e delle nostre scelte.

Te Deum laudamus perché quell’elezione - avvenuta nel cuore del tempo pasquale - ha rimesso al centro ciò che troppo facilmente si perde nelle stagioni ecclesiali segnate dalle contrapposizioni: la Chiesa non si rigenera moltiplicando schieramenti, si rigenera tornando a riconoscere e mettere al centro la voce del Signore Risorto. Leone XIV lo ha detto ai Cardinali con una concretezza che non concede alibi spiritualisti: Dio ama comunicarsi «nel sussurro di una brezza leggera», in quella “sottile voce di silenzio” che chiede ascolto e non clamore. E proprio da qui nasce anche la responsabilità ecclesiale: educare il Popolo di Dio a non confondere il fragore con la verità, l’applauso con il discernimento.

Te Deum laudamus perché l’unità che Leone XIV invoca e costruisce non passa dalla riduzione delle differenze, ma dalla loro riconciliazione dentro un’appartenenza più grande. Lo ha mostrato ricordando «la vera grandezza della Chiesa», che vive «nella varietà delle sue membra unite all’unico Capo, Cristo». Non sono parole astratte ma un vero e proprio criterio pastorale e politico, nel senso alto del termine. Quando la comunione diventa un progetto di omologazione, produce paura e controllo; quando è vissuta come corpo, diventa responsabilità reciproca e libertà, perché ciascuno serve l’altro senza annullarlo.

Te Deum laudamus perché, nel 2025, il magistero di Leone XIV ha indicato una via concreta e praticabile alla pace: passa dall’educazione delle relazioni e dalla custodia del linguaggio. Prima ancora di proporla al mondo, il Papa l’ha consegnata alla Chiesa come un compito interno, urgente: imparare a pacificarsi, a ricucire le fratture, a riconoscersi fratelli e sorelle dentro lo stesso Corpo. È un appello che riguarda tutti, clero e fedeli, perché senza questa conversione delle parole e degli sguardi la pace resta un tema, non diventa una forma di vita. Ai Vescovi italiani ha parlato di comunità chiamate a diventare “case della pace”, luoghi in cui l’ostilità viene disinnescata con il dialogo, dove la giustizia non resta un’idea e il perdono non è una parola devota. Poi ha aggiunto un punto decisivo per chi fa informazione, per chi guida comunità, per chi vive nelle parrocchie e nelle famiglie: la pace è «via umile, fatta di gesti quotidiani», intreccio di pazienza e coraggio, ascolto e azione. Non esiste pace che non passi dalla disciplina del quotidiano. 

Te Deum laudamus perché il Papa ha chiesto con chiarezza una vera “custodia” delle parole. Rivolgendosi ai vescovi, ha indicato una linea pastorale esigente: che le realtà ecclesiali diventino luoghi di ascolto intergenerazionale, capaci di dialogare con mondi diversi, e insieme ambienti in cui si pratica la cura delle parole e delle relazioni. Leone XIV ci richiama a un dato che spesso preferiamo ignorare: si può difendere una posizione e, nello stesso tempo, ferire la comunione; si può proclamare la verità e renderla meno credibile con il tono, con l’insinuazione, con la caricatura dell’altro. Per questo il Papa tiene insieme credibilità e comunione, indicando un ordine che non ammette scorciatoie: «solo dove c’è ascolto può nascere comunione, e solo dove c’è comunione la verità diventa credibile».

Te Deum laudamus perché il Papa ha preteso che la fede non venga usata come lessico identitario per dividere. Nel messaggio per la Giornata Mondiale della Gioventù ha scritto parole che, in un anno di polarizzazioni, suonano come un esame di coscienza ecclesiale: «Non seguite chi usa le parole della fede per dividere». E ha indicato la direzione opposta: lavorare per rimuovere disuguaglianze, riconciliare comunità polarizzate, trasformare l’energia dei giovani in responsabilità sociale e carità politica. È l’idea stessa di missione in un tempo in cui le fratture corrodono l’umano prima ancora delle istituzioni.

Te Deum laudamus perché l’invito all’unità, nel 2025, non è rimasto un appello generico. Leone XIV lo ha collocato dentro i processi concreti della Chiesa, chiedendo che la sinodalità diventi mentalità, che entri nei cuori e nei modi di decidere. E, nel farlo, ha scelto un’immagine di Sant’Agostino che mette fine a molte tentazioni di autosufficienza: nessun membro può dire all’altro “non ho bisogno di te”. L’unità, ci spiega il Papa, è una grammatica del corpo: ciascuno resta sé stesso e proprio per questo serve l’altro; ciascuno riconosce il limite e proprio per questo custodisce la comunione. 

Te Deum laudamus perché, a fine anno, possiamo riconoscere che la gratitudine cristiana non nasce dall’ottimismo, ma dalla presenza. La lode raddrizza lo sguardo: ricalibra libertà e senso dentro un tempo che ci rende più fragili ed esposti, e ci riporta all’essenziale, alla permanenza gratuita di un Dio vicino che non abbandona la storia. Questo 2025 ci consegna una declinazione concreta di questa certezza. Un Papa eletto dal Sacro Collegio a larga maggioranza mentre il mondo alza la voce e la Chiesa rischia di rispondere per istinto, di rincorrere le polarizzazioni. Leone XIV, invece, ha indicato un’altra via: la pace come conversione del linguaggio, guarigione delle relazioni, unità vissuta come corpo e non come somma di parti contrapposte.

Te Deum laudamus perché l’8 maggio 2025 non ha segnato soltanto l’avvio di un pontificato: ha aperto un camminoche la Chiesa è chiamata a percorrere con decisione. La pace di Cristo - che il mondo invoca con urgenza, spesso senza sapere dove cercarla -, se presa sul serio, diventa criterio di verifica: pesa le nostre parole prima dei nostri comunicati, le nostre appartenenze prima delle strategie, la nostra capacità di ascolto prima di ogni rivendicazione. E per l’anno che viene chiede qualcosa di estremamente concreto: diventare persone e comunità in cui la pace possa abitare senza essere addomesticata o ridotta a formula, perché nasce da una sorgente più grande di noi e, proprio per questo, può attraversare le nostre ferite senza trasformarsi in propaganda.

Silere non possum