Oggi celebriamo san Tommaso Becket. La sua memoria non è una casella da spuntare nel calendario liturgico: è una storia che torna a interrogarci ogni volta che la Chiesa cerca di restare sé stessa davanti ai poteri del tempo, senza irrigidirsi in una sfida e senza scivolare in una resa. «Io do la mia vita / Per la Legge di Dio sopra la Legge dell’Uomo». In Assassinio nella cattedrale Eliot ci offre uno sguardo privilegiato su quell’istante: Becket comprende che la fedeltà non coincide con l’istinto di salvarsi, e che una prudenza impastata di paura finisce per deformare il volto della Chiesa. Da lì in poi la coscienza non può più cercare sponde: deve rispondere in prima persona, con il proprio nome.

Benedetto XVI, parlando di Giovanni di Salisbury, riassume l’innesco storico: Enrico II intendeva «affermare la sua autorità sulla vita interna della Chiesa, limitandone la libertà»; quel disegno trovò «la coraggiosa resistenza… san Tommaso Becket», che per questo «andò in esilio» e, rientrato, «fu assalito e ucciso all’interno della sua cattedrale». 

Si parte sempre da cose che sembrano gestibili: un elenco di consuetudini, un testo da firmare, una formula che dovrebbe “mettere ordine”. Poi l’ordine diventa pretesa, la pretesa diventa controllo, e a Becket resta sempre meno spazio per parlare come pastore senza essere trattato come un funzionario. Le Costituzioni di Clarendon entrano nella storia così: come carta che stringe, come linguaggio che delimita, come cornice che pretende di essere la realtà. Da lì l’esilio, il ritorno, e infine la cattedrale che smette di essere soltanto un luogo di culto e diventa il luogo dove si sceglie di mettere fine alla vita di Tommaso, il 29 dicembre 1170.

Eliot non si limita a rappresentare l’urto tra Trono e Altare. Entra nella parte più rischiosa: la zona in cui il testimone di Dio può confondere il servizio con la propria immagine. La tentazione decisiva, nel dramma, non riguarda piacere o carriera; riguarda il martirio desiderato come consacrazione personale. Il Quarto Tentatore lo dice con una lucidità quasi oscena, evocando «la gloria dopo la morte» e il santo che «regna dalla tomba». Becket riconosce l’inganno perché l’esca non viene dall’esterno: «Chi siete voi, che mi tentate con i miei stessi desideri?». In quel momento la santità passa per una purificazione interiore più esigente di qualsiasi scontro politico: separare la causa di Dio dalla febbre dell’io. La grandezza di Becket, così come Eliot in modo esemplare lo scolpisce, emerge quando il dramma scende dal cielo delle intenzioni al pavimento della cattedrale. I sacerdoti vogliono sprangare le porte; l’istinto di sopravvivenza cerca la forma della prudenza. Becket comanda: «Non voglio che… il santuario, sia mutato in fortezza… La chiesa dev’essere aperta, anche ai nostri nemici». È un passaggio fondamentale, teologico piuttosto che strategico: difendere la Chiesa con i metodi della paura significa già averle cambiato natura. Per questo la sua scelta non si giustifica con il calcolo dei risultati. Becket lo denuncia apertamente: «Voi concludete dai risultati, come fa il mondo».

Qui il μάρτυς diventa un atto ecclesiale. Non perché rifiuti la storia, ma perché la attraversa con un criterio che la storia da sola non produce. Nel dramma, Becket definisce la condizione umana con una formula dura: «l’agire è soffrire / e il soffrire azione». Eliot non sta poetizzando la passività; sta dicendo che esiste un punto in cui l’azione più vera consiste nel non tradire ciò che si è compreso e sperimentato. Quando il potere pretende una resa dell’interiorità, la resistenza diventa testimonianza. Questo però coinvolge anche la “piccola gente”. Il Coro delle donne di Canterbury teme che l’evento travolga la vita ordinaria, chiede a Becket di non “portare morte a Canterbury”, invoca una normalità fatta di stagioni ripetute e paure private. È una delle intuizioni più moderne di quel testo: le grandi crisi non restano mai in alto, ricadono sui corpi, sulle famiglie, sul lavoro. Anche qui, Becket non risponde con una sterile retorica. La domanda resta appesa, e costringe chi ascolta a riconoscere una responsabilità: nessuna testimonianza è neutra per la comunità, e nessuna comunità può pretendere una fede senza costo. Dentro questa complessità si comprende perché Benedetto XVI leghi il Medioevo a un problema contemporaneo: la qualità della parola pubblica. Citando Giovanni di Salisbury, ricorda che «cieca» è l’«eloquenza non illuminata dalla ragione», e «monca» la sapienza che non sa farsi parola; poi traduce per l’oggi: è urgente comunicare «messaggi dotati di “sapienza”, ispirati… alla verità, alla bontà, alla bellezza», responsabilità che interpella il mondo della cultura e dei media.

Becket, che oggi celebriamo e preghiamo, diventa una domanda rivolta a chi informa e a chi governa: quale linguaggio usiamo quando parliamo di coscienza, di libertà religiosa, di diritto? La sua storia è stata spesso ridotta a slogan: ribelle, martire del clero, vittima del re. Eliot nel suo testo ci invita a fare un passo in più: mostra che la corruzione della parola prepara la violenza, e che la violenza cerca sempre una giustificazione “ragionevole”. Nel dramma, i cavalieri arrivano nella cattedrale con la semplificazione brutale di una definizione: «Dov’è Becket, il traditore del Re?». Quando una persona viene compressa in un’etichetta, è molto semplice che si passi dalle parole ai fatti. È qui che l’invito di Benedetto alla sapienza della comunicazione suona come un monito: la parola pubblica può diventare un’anticamera del linciaggio, oppure un argine. Sono temi su cui ci sta invitando a riflettere in questi mesi lo stesso Papa Leone XIV.  San Tommaso Becket resta attuale perché, nel momento decisivo, non consegna la Chiesa alla logica della fortezza e non consegna sé stesso alla logica del mito. Si lascia spogliare anche della tentazione più religiosa: la gloria. È un martire che non cerca il martirio come “carriera” spirituale, e proprio per questo lo subisce come fedeltà. Da qui la sua eredità: una libertà che non nasce dall’ostinazione, ma dall’obbedienza a una Verità riconosciuta come più grande del proprio interesse e persino della propria reputazione. In un’epoca che ama le narrazioni immediate, Becket ci invita ad una lentezza morale: discernere ciò che muove davvero le scelte, smascherare le parole che seducono, ricordare che la Chiesa perde sé stessa quando si difende con la paura, e che la società perde sé stessa quando scambia la ragione con la propaganda. La cattedrale, racconta Eliot, resta aperta: non per ingenuità, ma perché il Vangelo non sopravvive dietro le sbarre della prudenza.

d.M.L. 

Silere non possum