“Non vi è peggior tirannia di quella esercitata all’ombra della legge e con i colori della giustizia.” - Montesquieu

Il caso Garlasco, come altri episodi controversi nella storia giudiziaria italiana, solleva interrogativi profondi sulla qualità delle indagini, sull’affidabilità delle istituzioni preposte alla giustizia e sull’inquietante intreccio tra magistratura, forze dell’ordine e informazione mediatica. Più che un singolo caso di cronaca nera, Garlasco è diventato lo specchio di un sistema che mostra crepe sempre più evidenti.

Una delle questioni più gravi riguarda la fase investigativa iniziale, dove si sono verificate lacune clamorose: omissioni, prove occultate e l’accesso alla scena del crimine da parte di militari dell’Arma dei Carabinieri senza alcuna protezione che ha inevitabilmente compromesso l’integrità delle prove. Episodi simili sono accaduti in altri noti casi giudiziari (come quelli di Erba, Perugia o di Avetrana), e rivelano non solo un problema di incompetenza ma anche di formazione. Spesso le forze dell’ordine vengono arruolate con criteri che sembrano ignorare la preparazione tecnica e psicologica necessaria per affrontare situazioni complesse. Non è raro che nei gradi più bassi ci si trovi davanti a individui non adeguatamente preparati e provenienti da realtà seriamente problematiche. 

Ma il problema non si limita alle forze dell’ordine. Anche la magistratura – istituzione che dovrebbe incarnare integrità, equilibrio e imparzialità – è oggi travolta da scandali, lotte intestine e relazioni ambigue con il mondo dell’informazione. Tra i pochi giornalisti che, con rigore e competenza, hanno denunciato queste derive c’è Ermes Antonucci, firma de Il Foglio, che quotidianamente pubblica analisi documentate e approfondite sulle criticità del sistema giudiziario italiano. Come spesso accade in Italia, però, chi osa raccontare scomode verità diventa facilmente bersaglio. Antonucci ha subito più volte tentativi di delegittimazione, diffamazione e persino azioni intimidatorie. Non è un caso che l’Associazione Nazionale Magistrati, anziché rispondere nel merito alle sue inchieste, sembri spesso reagire con fastidio, se non con aperta ostilità, nei suoi confronti.

È un dato di fatto, però, che la fiducia nei confronti dei magistrati, un tempo considerati incorruttibili, è crollata negli ultimi anni a causa di episodi che hanno visto coinvolti molti dei suoi rappresentanti in traffici di potere, favoritismi e giochi di carriera. In questo contesto, si è creato un cortocircuito pericoloso tra giustizia e giornalismo, in cui entrambi i mondi sembrano usarsi a vicenda per orientare l’opinione pubblica.

Dal punto di vista psicologico e sociologico, la giustizia italiana – o, meglio, la sua rappresentazione pubblica – è sempre più ostaggio di un giustizialismo superficiale e pericolosamente emotivo. Come osserva lo psicologo sociale Mauro Maldonato nel suo saggio “Il bisogno di punire. Saggio sulla mentalità giustizialista”, il desiderio di giustizia si trasforma troppo spesso in un bisogno di colpevoli, più che in una ricerca della verità. Una dinamica che emerge con drammatica chiarezza nel caso Garlasco.

In questa vicenda, anche i più cauti tra gli osservatori ammettono che non si possa affermare “al di là di ogni ragionevole dubbio” che Alberto Stasi sia l’autore dell’omicidio. Eppure, l’ossessione collettiva per la punizione ha fatto sì che quel dubbio venisse ignorato o deriso. A contribuire a questa distorsione ci sono le ore interminabili di talk show in cui si susseguono figure prive di competenze tecniche ma cariche di presunzione.

Tra queste, spicca il caso di Gianluigi Nuzzi, personaggio onnipresente che si esprime con disinvoltura su temi che spaziano dal diritto penale al Vaticano, passando per il giornalismo d’inchiesta, senza però avere padronanza di alcuno di questi ambiti. Il suo tono perentorio e la sicumera con cui dispensa certezze alimentano un clima tossico, dove il dubbio è visto come un fastidio e non come una risorsa democratica. Nei salotti televisivi, conduttori e opinionisti trasformano la tragedia in intrattenimento, ripetendo formule vuote come: “Se non è stato Stasi, chi è stato?” – una domanda che, nella sua apparente logica, tradisce una visione distorta del processo penale.

Non è compito dell’opinione pubblica colmare le lacune lasciate da indagini mal condotte; né esiste un obbligo di individuare un colpevole a ogni costo. È legittimo, anzi doveroso, ammettere che lo Stato, attraverso i suoi uomini, può anche fallire. Ma riconoscere questo significherebbe mettere in discussione l’immagine rassicurante di una giustizia infallibile, gestita da servitori integerrimi dello Stato. Un'immagine che, purtroppo, non corrisponde affatto alla realtà.

Sono proprio i talk show a perpetuare questa narrazione distorta, alimentando una pulsione primitiva alla punizione. A parlare non sono esperti di diritto o investigatori qualificati, ma opinionisti improvvisati, giornalisti a caccia di ascolti, pseudo criminologhe e personaggi mediatici che confondono la realtà con lo spettacolo. Il risultato è una giustizia popolare, gridata e scomposta, che ha più a che fare con la vendetta sociale che con il diritto.

Un altro punto centrale riguarda il ruolo dei media: la magistratura, troppo spesso, si avvale della stampa come strumento per costruire e rafforzare una narrazione funzionale alla legittimazione pubblica delle proprie decisioni. Una dinamica inquietante, che solleva interrogativi profondi: perché certi atti giudiziari compaiono prima sulle scrivanie delle redazioni che nelle mani degli imputati o dei loro avvocati?

È un copione che si ripete, puntuale, ogni volta che viene violato il segreto istruttorio senza che vi siano conseguenze concrete per chi detiene e diffonde quelle informazioni riservate. Perché i titolari dei fascicoli non rispondono mai personalmente — anche penalmente — di queste fughe di notizie? L’inchiesta de Le Iene ha rivelato addirittura che alcuni servizi giornalistici sarebbero stati pubblicati solo dopo l’ok (esplicito) da parte dei magistrati. Una prassi gravissima, sotto molteplici profili. Da un lato mina l’indipendenza della stampa, trasformandola in megafono del potere giudiziario; dall’altro viola il principio stesso di imparzialità, poiché il pubblico ministero non dovrebbe — e non potrebbe — comunicare con i media in questa modalità.

Eppure, questo comportamento sembra diventare sempre più la norma. E allora ci si chiede: chi restituirà ad Alberto Stasi gli anni perduti della sua giovinezza? Chi risarcirà un’ingiusta detenzione, decisa da giudici che non ne subiranno mai le conseguenze dirette? Non saranno loro a pagare. Saranno, ancora una volta, i cittadini italiani, attraverso lo Stato, a farsi carico degli errori commessi da chi indossa la toga. Un paradosso evidente: mentre un dirigente d’azienda risponde penalmente e con il proprio patrimonio di fronte a un illecito, un magistrato può sbagliare — anche gravemente — senza doverne rispondere in prima persona. Un’immunità di fatto, che alimenta una pericolosa asimmetria in questo sistema di giustizia.

Se la magistratura sfrutta la stampa, anche la stampa sfrutta la magistratura per dare autorevolezza a notizie spesso incomplete, distorte o addirittura false. In questo contesto, poche voci cercano davvero la verità sostanziale dei fatti. Va riconosciuto, in tal senso, il valido lavoro critico compiuto in questi anni dal programma Le Iene, che si è spesso domandato se ciò che viene affermato in una sentenza giudiziaria corrisponda davvero alla realtà.

La cosa più inquietante, però, è che tutto questo sembra rassicurare una parte della popolazione. Come spiegano gli psicologi Daniel Kahneman e Amos Tversky nei loro studi sui bias cognitivi, gli esseri umani tendono a preferire versioni semplificate della realtà, anche se false, perché riducono l’ansia dell’incertezza. Pensare che il sistema funzioni – che la magistratura punisca sempre i colpevoli, che la polizia agisca sempre con competenza – è psicologicamente più rassicurante che ammettere l’esistenza di impreparazione, errori o di abusi. In fondo, per molti, è più comodo credere che le cose vadano bene così.

Ecco perché è importante coltivare lo spirito critico. Perché la giustizia vera – quella che si avvicina alla verità dei fatti – ha bisogno di cittadini vigili, informati e consapevoli. Non servono tifosi della giustizia, ma osservatori lucidi e coscienze libere.

S.F.
Silere non possum