Città del Vaticano – Questa mattina in Piazza San Pietro Papa Leone XIV ha accolto i pellegrini provenienti da alcune regioni simboliche dell’Italia centrale — Toscana, Marche, Abruzzo e Puglia — in occasione del loro pellegrinaggio giubilare. Un incontro che, al di là della dimensione spirituale, si è trasformato in una lezione di ecclesiologia concreta, in cui il Pontefice ha toccato con realismo alcune delle questioni più urgenti che attraversano oggi la vita delle Chiese locali.

Il richiamo all’unità nella diversità

Nel suo discorso, Leone XIV ha riaffermato il valore dell’unità ecclesiale, non come uniformità sterile ma come comunione vissuta tra differenze geografiche e pastorali. Una distinzione che assume particolare rilievo proprio per le diocesi toscane e marchigiane, dove è in corso un processo di unificazione di alcune diocesi: un tema che il Papa ha affrontato con equilibrio ma anche con chiara prudenza pastorale.

«In alcune Regioni italiane – ha detto – e la Toscana e le Marche sono tra queste – è stato avviato anche un processo di unificazione delle diocesi che, da una parte, può far emergere alcune potenzialità pastorali, non tanto riguardo alle forze numeriche ma alla qualità della proposta. Dall’altra parte […] è necessario che si faccia un vero e proprio esercizio sinodale, cioè che si cammini insieme per interrogarsi, per iniziare qualche sperimentazione e per avviare un discernimento sereno e franco al fine di evidenziare le possibilità e i limiti di un tale processo».

Dietro la compostezza del linguaggio pontificio si cela un avvertimento chiaro: la fusione delle diocesi non può essere solo una misura burocratica o amministrativa, ma deve nascere da un autentico discernimento ecclesiale. Altrimenti, più che unire, rischia di frantumare ulteriormente ciò che già oggi fatica a rimanere coeso.

La crisi delle vocazioni e il nodo dei seminari

Il Papa ha accennato, con discrezione, alle collaborazioni interdiocesane già in atto, come quelle tra i Tribunali ecclesiastici e le strutture di formazione dei presbiteri. Ma è proprio su quest’ultimo punto che si apre la ferita più profonda: la formazione sacerdotale in Toscana.

Da anni, i seminari toscani attraversano un declino inesorabile. Le vocazioni sono poche, i giovani spesso smarriti, e — fatto ancor più allarmante — i formatori scelti mostrano talvolta fragilità personali o inclinazioni ideologiche che finiscono per compromettere la qualità della formazione. Invece di educare uomini di preghiera, di fede solida, affettivamente maturi e culturalmente preparati, molte realtà sembrano produrre figure clericali appiattite su modelli sociologici, più vicine all’assistente sociale di turno che al sacerdote configurato a Cristo.

In questo clima, la psicologia diventa spesso uno strumento di controllo, usata non per accompagnare ma per manipolare le coscienze di chi non si uniforma. E così, non di rado vengono ordinati soggetti problematici, che dopo pochi anni di ministero si rivelano fonte di tensione e di fatica per il presbiterio e per il vescovo stesso. In Toscana, il tentativo di accorpare la formazione sacerdotale nell’arcidiocesi di Pisa, intrapreso dalle diocesi del nord della regione, si è rivelato un completo fallimento. Un’esperienza che, stando a numerose testimonianze, ha lasciato molti giovani delusi, disincantati e spesso intenzionati ad abbandonare il cammino vocazionale, logorati da un clima formativo insostenibile e privo di un reale progetto condiviso.

Ora che anche Pisa è rimasta senza numeri, si prospetta l’idea - fino ad oggi osteggiata dai vescovi - di convogliare tutto su Firenze. Ma anche qui, il quadro non è confortante: l’arcidiocesi fiorentina, un tempo viva e feconda, vive oggi un periodo di disorientamento, aggravato dalle scelte discutibili del nuovo arcivescovo, più incline alla retorica missionaria che al governo reale di una comunità complessa. Il risultato? Seminari svuotati, formatori ideologici, preti stanchi e un laicato sempre più disinteressato. Il discernimento auspicato da Leone XIV, in questo contesto, appare non solo necessario ma urgente: non per “fondere” diocesi o strutture, ma per riconvertire spiritualmente un sistema formativo che ha perso il senso del sacro e dell’essenziale.

Il rischio delle “unità pastorali di carta”

Un altro passaggio, implicito ma decisivo, del discorso del santo padre tocca il tema del calo del clero. L’unificazione delle diocesi, se non accompagnata da una reale riforma pastorale, rischia di appesantire i vescovi di burocrazia e di numeri, senza risolvere il problema di fondo. Anzi, finisce spesso per accentuare una deriva già in atto: la creazione di unità pastorali sproporzionate, dove le chiese restano numerose ma i presbiteri sempre meno. Un modello che, più che esprimere quel “camminare insieme”, consuma lentamente i sacerdoti, costretti a rincorrere le esigenze di più comunità, spesso in solitudine e senza un vero sostegno umano o spirituale. Leone XIV, con la sua consueta sobrietà, invita a un serio discernimento: perché i numeri non mentono e raccontano una realtà fatta di preti stanchi, isolati e logorati da un sistema che pretende molto ma accompagna poco.

La richiesta di aiuto proviene da quei tanti sacerdoti che, lontani dai riflettori, vivono il loro ministero nelle periferiedelle diocesi, servendo con dedizione il popolo santo di Dio. Non certo da quei chierici di mestiere, più attenti a presenziare a sagre e banchetti che a visitare i malati o ascoltare le persone. Quelli che, avvolti in talari troppo strette e ambizioni troppo larghe, si improvvisano liturgisti o esperti di cultura, ma dimenticano che il vero centro del ministero sacerdotale non è il rocchetto, bensì la cura delle anime affidate loro.

Serve — e il Papa lo lascia intendere — il coraggio di chiudere chiese, di concentrare le comunità, di scegliere la qualità della vita pastorale anziché l’illusione della presenza capillare. E serve, aggiungiamo, il coraggio di dire che la crisi non si risolve con le fusioni o le sigle, ma con una riforma spirituale che parta dall’alto: dalla selezione dei formatori, dall’onestà dei vescovi, dall’eliminazione di quei “personaggi” all’interno di presbiterio e seminari - spesso sempre gli stessi - che creano divisione, alimentano mormorazioni e finiscono col rifugiarsi nei loro vizi. In alcune diocesi, i seminari, le comunità e le case del clero sono ormai teatri di rivalità e chiacchiericcio, dove la fraternità sacerdotale ha ceduto il posto all’invidia e alla mediocrità.

Il Papa e la “Chiesa presso l’uomo”

Leone XIV ha poi rivolto un lungo passaggio al mondo del lavoro, citando San Paolo VI e san Giovanni Paolo II: un richiamo importante, che restituisce al Vangelo il suo respiro sociale. In una Toscana dove aziende chiudono, famiglie si impoveriscono e intere generazioni vivono sospese, il Papa chiede una Chiesa “presente presso l’uomo”, capace di ascoltare e non di chiudersi nei salotti curiali.

Ma anche qui la sfida è doppia: come essere “Chiesa presso l’uomo” se mancano sacerdoti formati, se i laici non sono preparati, se il clero è stanco e diviso? È questa la domanda che resta sospesa, e che nessun decreto di fusione potrà risolvere.

Un appello alla responsabilità ecclesiale

Nel suo appello conclusivo, Leone XIV ha evocato la figura di Don Lorenzo Milani, con il suo motto “I care”: “mi importa, mi sta a cuore”. Un’espressione che suona come una provocazione: chi, oggi, nella Chiesa, può dire sinceramente “mi importa”? Non bastano le riforme istituzionali, i loghi sinodali o le consultazioni interminabili: serve una conversione del cuore, una rinascita spirituale che riporti il sacerdozio alla sua radice evangelica e la Chiesa alla sua essenza orante. Perché, come ha ricordato il Papa, “la Chiesa deve essere presso le case, presso le fabbriche, presso l’uomo”. Ma per esserlo, deve prima tornare presso Dio.

d.R.M. e F.P.
Silere non possum