Negli ultimi anni, la Chiesa cattolica ha vissuto un cambiamento profondo nel suo modo di rapportarsi con la politica. Un cambiamento che ha avuto il suo epicentro nel pontificato di Papa Francesco. Con lui, la Chiesa ha progressivamente assunto una posizione sempre più marcata su temi sociali e ambientali, finendo spesso per allinearsi – nei toni e nei contenuti – con le istanze della sinistra progressista. Questo, tuttavia, non è avvenuto senza conseguenze.

Il corteggiamento della sinistra da parte del Vaticano non è solo inedito per i suoi modi, ma anche profondamente contraddittorio. Parliamo infatti di forze politiche che, per decenni, hanno sostenuto e promosso leggi e visioni del mondo apertamente contrarie alla dottrina cattolica: aborto, eutanasia, ecc…Eppure oggi, quegli stessi ambienti sono accolti con simpatia e considerazione nei palazzi vaticani, mentre coloro che – pur con tutti i loro limiti – difendono valori storicamente compatibili con l’insegnamento cattolico, si trovano esclusi o marginalizzati. Questo paradosso è oggi evidente. A sinistra, si guarda alla Chiesa con una punta di commiserazione, quasi con condiscendenza: “guardate questi che vogliono entrare nelle nostre file”, sembrano pensare, ironicamente. La loro strategia è chiara: accogliere il Papa quando parla di migranti, clima, giustizia sociale, salvo poi ignorarlo – o peggio, attaccarloquando ricorda che l’aborto è un peccato grave, o che la vita umana è sacra dal concepimento alla morte naturale.  

Dall’altro lato, anche la destra ha finito per sentirsi ingannata. Quei politici che un tempo non esitavano a manifestare pubblicamente la loro devozione verso la Chiesa – con gesti simbolici come il bacio dell’anello papale o una profonda deferenza nei confronti dei cardinali – oggi mostrano un atteggiamento freddo, quando non apertamente ostile. Emblematica, in tal senso, è l’immagine del vicepresidente degli Stati Uniti che dà una pacca sulla spalla al cardinale Segretario di Stato: un gesto che va ben oltre il protocollo e rivela una percezione ormai diffusa e radicata. Si tratta spesso di politici che si professano cattolici, che non esitano a strumentalizzare i figli o la famiglia per rafforzare un’immagine pubblica “valoriale”, ma che allo stesso tempo non riconoscono più alcuna autorità alla gerarchia ecclesiastica. La Chiesa, ai loro occhi, ha cessato di essere una guida spirituale. È diventata un attore politico tra i tanti – e, in molti casi, un avversario ideologico.

In Italia, questo fenomeno è evidente nei rapporti tra il governo guidato da Giorgia Meloni e la Santa Sede. Se da una parte la premier si richiama spesso alla tradizione e ai valori cristiani, dall’altra riceve freddi silenzi o critiche indirette da parte del Papa e dei suoi collaboratori. Lo stesso accade negli Stati Uniti, dove esponenti della destra repubblicana, un tempo vicini alla Chiesa, oggi si sentono da essa osteggiati, se non apertamente criticati. Al momento ci sono delle vere e proprie lotte, anche nei tribunali, fra i vescovi e la Casa Bianca a motivo della questione migratoria. 

Questa perdita di credibilità si riflette anche nell’opinione pubblica cattolica. Sempre più fedeli si domandano: dove sta andando la Chiesa? È davvero il suo compito prendere posizione su ogni tema di attualità politica? Non rischia, così facendo, di smarrire la sua vocazione universale e trascendente? Il professor Loris Zanatta, tra i più acuti studiosi politici, ha descritto in modo lucido questo fenomeno nel suo libro “Bergoglio. Una biografia politica”: «Francesco non è un politico, ma un leader che ha assunto un ruolo politico. Non è un capo di Stato, ma si comporta da protagonista della geopolitica. Non è un ideologo, ma incarna un’ideologia, quella del populismo cattolico latinoamericano, in cui la Chiesa si pone come difensore del popolo contro le élite, come guida morale e sociale oltre che spirituale.»

Zanatta sottolinea come l’immaginario bergogliano sia radicato nella teologia del popolo, una corrente argentina del pensiero cattolico che tende a fondere la dimensione religiosa con quella sociale, spesso in chiave anti-capitalista e anti-liberale. Da qui, il sospetto verso l’impresa, la critica alla finanza, la simpatia verso movimenti popolari, anche se ideologicamente distanti dal magistero della Chiesa. Ma questa fusione tra politica e religione ha un prezzo. Quando la Chiesa si schiera apertamente con una parte politica – anche se lo fa in nome della giustizia o dei poveri – inevitabilmente perde la sua capacità di parlare a tutti. Diventa parte in causa. Diventa divisiva. E finisce per essere vista come ipocrita da chi, da una parte, la sente predicare misericordia e inclusione, e dall’altra la vede chiudere la porta in faccia a chi non condivide la sua nuova linea ideologica.

Il problema, dunque, non risiede tanto nell’apertura al dialogo con la sinistra, quanto nell’esclusione – quando non nella demonizzazione – di tutto ciò che non si conforma a quella visione ideologica. A ben guardare, però, non si può nemmeno parlare propriamente di “dialogo”. Perché un vero dialogo presuppone uno scambio, un confronto tra posizioni differenti. Qui, invece, si è trattato di un progressivo allineamento. La sinistra non si è mai posta in ascolto della Chiesa, né ha cercato di comprenderne il messaggio. Non ha accolto l’insegnamento del Papa con spirito di conversione. Al contrario, è stata la Chiesa – o meglio, il Papa stesso – a muoversi verso di loro, a compiacerli, a far capire di essere dalla loro parte, quasi a voler dire: “Non sono qui per correggervi, ma per sostenervi”. Non un Papa che interpella, ma un Papa che rassicura. Non un maestro, ma un compagno di viaggio. 

Ci troviamo davanti a una Chiesa che, nel tentativo di restare rilevante nel dibattito pubblico, ha finito per smarrire la propria autorevolezza spirituale. Ha abbandonato la voce profetica per inseguire l’applauso dei media. Ha preferito essere accolta nei salotti del potere piuttosto che risuonare, libera e scomoda, come voce nel deserto. Emblematico è l’atteggiamento di molti vescovi, che oggi si mostrano estremamente prudenti – quando non apertamente restii – ad accogliere esponenti politici di destra, mentre non esitano a farsi fotografare sorridenti accanto a personaggi notoriamente schierati a sinistra, partecipando senza remore a convegni e conferenze dal chiaro orientamento ideologico. Questo non è solo un sintomo di conformismo, ma anche il risultato di una dinamica ben più profonda: la sudditanza culturale e psicologica nei confronti del mondo dell’informazione.

È cosa nota che una larga parte del giornalismo italiano – e internazionale – sia orientata a sinistra. I vescovi lo sanno bene. Ed è in funzione di questo contesto che modellano spesso i loro comportamenti pubblici. L’ossessione per l’immagine e il timore di essere oggetto di campagne mediatiche ostili ha sostituito la preoccupazione di restare fedeli al Vangelo. Basta osservare la reazione scomposta della stampa in queste ore rispetto alla visita del vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, in Vaticano. Una marea di giornalisti – o meglio, opinionisti travestiti da cronisti – si è riversata su Twitter per ironizzare o insinuare che Papa Francesco non volesse riceverlo, presentando la mancata udienza formale come un segnale politico. Peccato che, come noto a chiunque abbia dimestichezza con i protocolli diplomatici, non esista alcun obbligo di ricevere il vicepresidente degli Stati Uniti, e che equiparare questa figura con quella dei monarchi britannici, come alcuni hanno fatto, sia semplicemente ridicolo. Si tratta di due ruoli profondamente diversi, con un peso simbolico e istituzionale non paragonabile.

Eppure, per evitare che anche il giorno di Pasqua si scatenassero polemiche surreali, Papa Francesco ha preferito ricevere Vance in forma riservata, poco prima della benedizione Urbi et Orbi. Un gesto di buon senso, certo, ma che dimostra quanto la pressione mediatica condizioni oggi le scelte della Santa Sede. Il punto, dunque, è chiaro: oggi molti vescovi – e non pochi ambienti vaticani – sembrano preoccuparsi più delle reazioni dei giornali che del giudizio di Dio. È il segno di una Chiesa che ha smesso di guidare e ha iniziato a inseguire. Una Chiesa che ha paura di essere criticata, ma non ha più timore di essere infedele alla propria missione.

Il risultato? Una crisi di credibilità senza precedenti. I politici non si inginocchiano più. I fedeli si dividono. E la Santa Sede viene sempre più percepita non come centro della cattolicità, ma come attore politico tra i tanti. Con la differenza che, a differenza degli altri, questa istituzione millenaria dovrebbe parlare di eternità, non di elezioni.

Il compito della Chiesa, ricordava Joseph Ratzinger, non è conquistare il potere, ma convertire i cuori. Quando smette di annunciare Cristo per inseguire il consenso, diventa una ONG con cappella. E il mondo, che la rispetta solo quando è se stessa, non potrà che deriderla.

d.A.S.
Silere non possum