C’è un’immagine che attraversa sottilmente le pagine di Il Guaritore ferito: quella del prete come uomo ferito, non come santo inarrivabile o funzionario del sacro, ma come essere umano esposto, fragile, attraversato dal dolore. Henri J.M. Nouwen - teologo olandese, psicologo e guida spirituale - scrive questo libro negli anni Settanta, ma le sue parole sono quantomai attuali: un tempo in cui la solitudine del sacerdote, la crisi d’identità e la distanza dal mondo rischiano di renderlo un uomo invisibile. Eppure, per Nouwen, proprio nella ferita si nasconde la possibilità della salvezza.

L’uomo prima del ministro

«Il ministro di domani - scrive Nouwen - sarà un uomo del suo tempo, profondamente consapevole della propria umanità». Il prete, dunque, non può più rifugiarsi in un ruolo o in una funzione. È chiamato a essere uomo fra gli uomini, immerso nella storia, nella cultura e nelle domande del suo tempo. Non un custode di risposte preconfezionate, ma un compagno di viaggio che condivide la stessa sete. Il sacerdote non si distingue per una superiorità spirituale, ma per la capacità di stare dentro la propria vulnerabilità senza fuggirla. È un uomo che ha attraversato il deserto e che, proprio per questo, può parlare a chi vi cammina dentro.

Nouwen rifiuta la figura del ministro “professionale”, protetto da un linguaggio clericale e da una distanza psicologica. Il vero pastore è, piuttosto, colui che si lascia toccare dal dolore del mondo. In lui la parola “ministero” si riempie di carne, di esperienza, di lacrime. La sua forza non nasce dal dominio, ma dalla trasparenza del suo limite.

Il potere della ferita

Nouwen prende sul serio l’immagine evangelica del Cristo risorto che mostra le sue piaghe: «È attraverso le sue ferite che noi siamo stati guariti». Non è un paradosso poetico, ma una chiave antropologica. Solo chi ha conosciuto la propria fragilità può comprendere veramente l’altro. Il prete, se è uomo ferito, non nasconde la sua ombra; anzi, la accoglie come parte del suo ministero.

La ferita diventa luogo di comunione: ciò che separava, ora unisce. Nel dolore riconosciuto - non negato, non spiritualizzato - nasce la possibilità di una parola autentica, non ideologica. Il ministro ferito, dice Nouwen, non offre soluzioni, ma presenza. Non cura “dall’alto”, ma “da dentro”. È una figura che annuncia un Dio che non salva per potenza, ma per compassione. «Il guaritore ferito non è un terapeuta che osserva da lontano: è uno che ha toccato la stessa sofferenza e ha imparato a rimanerci dentro senza esserne distrutto».

L’illusione dell’efficienza

Una delle critiche più lucide di Nouwen riguarda l’illusione moderna del “prete efficace”. Viviamo in un tempo, scrive, in cui la spiritualità è misurata in risultati e numeri. Il ministro rischia di diventare un manager del sacro, preoccupato più di organizzare che di accompagnare. Ma la Chiesa non ha bisogno di manager: ha bisogno di testimoni feriti, capaci di silenzio e di ascolto. La vera autorità del sacerdote nasce non dalla funzione, ma dalla compassione: quella capacità di soffrire con l’altro che si impara solo attraversando la propria notte.

Nouwen osserva che molti ministri si difendono dalla loro umanità attraverso l’attivismo. Altri si nascondono dietro all’apparente perfezione. C’è chi corre da una celebrazione all’altra per non sentire il vuoto, si rifugiano nel lavoro pastorale come anestetico spirituale. Ma un prete che non si ferma mai non è segno di vita, è segno di paura. Solo chi osa guardare la propria ferita senza travestirla da zelo può tornare a essere presenza di Cristo.

Una spiritualità dell’incontro

Il ministro ferito è, per Nouwen, il ponte tra la disperazione del mondo e la speranza di Dio. Non parla “ai” fedeli, ma “con” loro; non evangelizza dall’alto di un pulpito, ma dal basso della propria fragilità. Il suo compito non è quello di salvare, ma di rendere visibile la presenza di Dio nei luoghi più oscuri della vita umana.

Il sacerdote è, così, “un uomo in mezzo agli uomini”, che non teme di condividere le stesse ferite: la solitudine, il fallimento, il dubbio. Per Nouwen, l’autenticità è più eloquente della perfezione. Il mondo di oggi, ferito e disincantato, non ascolta chi proclama certezze, ma chi mostra di avere attraversato la notte e continua a credere nella luce. È questo il profilo del prete credibile: un uomo che ha accettato la propria povertà come via di comunione.

Il sacerdote come segno di speranza

Alla fine del libro, Nouwen non propone ricette pastorali, ma un’immagine: quella di un uomo che, toccato dal dolore, non smette di credere nella resurrezione. Il sacerdote ferito non è un fallito, ma un testimone della grazia che scaturisce dal limite. La sua vita è una parabola vivente della misericordia. In un mondo che teme la debolezza, egli osa dire che la forza nasce dal riconoscere la propria impotenza, e che la speranza non è ottimismo ma fedeltà nella notte.

Nouwen conclude che il presbitero autentico è colui che può stare in silenzio accanto all’altro, senza doverlo guarire, senza doverlo convincere, ma semplicemente amandolo con la tenerezza di chi sa che ogni ferita è, in fondo, un varco da cui Dio entra. In un tempo in cui il sacerdozio rischia di ridursi a una parte da interpretare, e la Chiesa sembra più attenta a preservare l’immagine di un prete impeccabile, distante, immune da ogni fragilità, viviamo una stagione in cui al sacerdote è spesso negata la possibilità di essere semplicemente uomo - libero, fragile, autentico. Eppure, la lezione di Henri Nouwen resta essenziale: il prete non è colui che non sanguina, ma colui che non nasconde il sangue. È un uomo ferito e proprio per questo, capace di guarire.

d.T.A.
Silere non possum