Le parole utilizzate da Leone XIV durante la benedizione Urbi et Orbi del 25 dicembre scorso disegnano una geografia del dolore contemporaneo: Gaza e lo Yemen, il Mediterraneo attraversato dai migranti, i giovani in cerca di lavoro, i lavoratori sottopagati, i detenuti costretti a condizioni che feriscono la dignità. Il Papa cita popoli e ferite come si leggono i nomi in una litania, perché il male, quando resta astratto, diventa gestibile. Quando abbiamo il coraggio di dargli un volto, domanda una risposta.
La mappa tracciata dal Papa trova unità in una parola che oggi divide: responsabilità, intesa come grammatica della pace e non come etichetta moralistica. Leone XIV la pone sul crinale in cui la religione può ridursi a consolazione e la politica può irrigidirsi nel cinismo, indicando un passaggio che riguarda la coscienza e, insieme, lo spazio pubblico. Invita a riconoscere le proprie mancanze, a chiedere perdono, a mettersi nei panni di chi soffre e a costruire legami di solidarietà con chi porta il peso maggiore; da questo movimento prende forma una conversione del cuore capace di incidere su scelte, priorità, linguaggi e interessi.
Il Papa mette al centro una verità teologica con conseguenze sociali: il Figlio di Dio nasce senza protezione, sperimenta il rifiuto, assume la povertà, sceglie di caricarsi del peccato dell’uomo. Nel Natale, questa traiettoria appare già intera. La storia della mangiatoia diventa un criterio di giudizio: dove una società accetta che ci sia “posto” per alcuni e scarto per altri, la ferita si apre. Dove una comunità costruisce spazi di accoglienza e strumenti di giustizia, la ferita comincia a rimarginarsi.
San Tommaso Moro nel 1516 denunciava i meccanismi che espellono i poveri e poi li puniscono. La sua immagine delle pecore “voraci” che divorano campi e case racconta un processo: la concentrazione di ricchezza produce sradicamento, lo sradicamento produce miseria, la miseria viene trasformata in colpa. Moro, in Utopia, spiegava che il potere, quando diventa autoreferenziale, ha bisogno di presentare le proprie conseguenze come fatalità. Il politico cattolico inglese insisteva su un punto che oggi torna decisivo: la legge perde credibilità quando colpisce la disperazione senza curarne le cause. Nel denunciare l’ingiustizia di una pena capitale per un furto, richiamava l’ordine delle cose: una vita umana porta un valore che nessun calcolo economico può pareggiare. Spiegava che la dignità non nasce dal rendimento, nasce dall’essere figli. Leone XIV lo denuncia il giorno di Natale rivolgendosi a Roma e al mondo intero: un sistema che produce scarti finisce per difendersi con l’indurimento, e l’indurimento genera ulteriore frattura.
Il cuore del problema, e San Tommaso Moro lo spiega molto bene, è la superbia che misura la prosperità sul disagio altrui e trasforma il povero in strumento: presenza utile per sentirsi superiori, per dominare, per deridere. Questa diagnosi tocca un nervo scoperto dell’Occidente: il benessere che si autosantifica, la distanza che diventa indifferenza, l’abitudine a delegare la sofferenza ai margini. Leone XIV, quando richiama il dovere di “mettersi nei panni di chi soffre”, propone un antidoto spirituale e civile: spezzare la catena che parte dal disprezzo e arriva alla violenza, che parte dalla fretta e arriva all’abbandono.
Nel Messaggio, la pace prende forma attraverso parole che hanno una struttura concreta: perdono, dialogo, riconciliazione, giustizia. Il Papa richiama il profeta Isaia: «Praticare la giustizia darà pace». In quella formula entra tutto: la pace richiede istituzioni capaci di proteggere, economie capaci di includere, politiche capaci di guardare lontano. Richiede anche coscienze capaci di scegliere il bene quando costa. La responsabilità, allora, diventa una disciplina: imparare a vedere il nesso tra le decisioni di ciascuno e le ferite di molti.
Dentro questa prospettiva, la poesia della “pace selvatica” assume un peso particolare. Parla di una stanchezza che arriva dopo l’eccitazione, quando cadono le maschere e resta la verità delle cose. Il Papa la colloca come invocazione che sale dalla terra. Chi vive guerre e ingiustizie conosce quella stanchezza: desidera una pace che rimetta in piedi, che restituisca fiducia, che permetta di respirare. Il Natale, ce lo ha ricordato Leone XIV, offre questa possibilità perché mette al centro una Presenza che entra nella fragilità, la attraversa, la trasforma dall’interno.
Il Giubileo della Speranza si avvia a concludersi, le Porte Sante si chiudono, il compito resta aperto. La speranza non galleggia sopra le rovine; lavora dentro le rovine con pazienza. Il Papa lo lascia intendere quando affida al mondo un programma di conversione e di responsabilità. San Tommaso Moro ci ricorda che la giustizia comincia quando una società smette di fabbricare poveri e ricomincia a riconoscere persone. Tra Betlemme e le nostre periferie corre una linea precisa, che chiede scelte vere. La pace cresce dove quella linea viene rispettata, custodita, praticata.
d.L.V.
Silere non possum