In una diocesi di provincia, dove le campane scandiscono ancora la vita della gente semplice e i corridoi della Curia odorano di cera antica e di silenzio custodito, ci sono vescovi che esercitano il loro ministero non con la sapienza dei pastori, ma con la repressione e l’emotività di chi, un tempo, è stato esautorato dagli ambienti romani.
Il potere ferito
Questi presuli hanno imparato a dissimulare l’amarezza dietro sorrisi lenti e parole misurate in pubblico, a governare con l’emotività più che con la ragione, a incutere timore invece di accompagnare e conoscere i propri confratelli.
L’essere stati trombati nei palazzi del potere li ha resi più guardinghi e sospettosi: oggi si circondano di fedeli pronti a decifrare ogni gesto come un ordine, uomini e donne sempre in allerta, perché ben sanno che l’umore del Vescovo è una bussola impazzita.
Vivono al ritmo delle sue oscillazioni, tra la carezza e il rimprovero, in quell’equilibrio instabile che solo gli animi schizofrenici del potere sanno creare.
La nuova religione della “psicologia”
In queste stanze, dove il Vangelo è appeso come un quadro sbiadito e le parole evangeliche hanno ceduto il passo ai referti e ai pareri, la psicologia è diventata il nuovo strumento del potere.
Non quella autentica — che accompagna, ascolta, libera — ma quella piegata alle logiche del manipolatore di turno. Non più il confessionale, ma il colloquio clinico; non più la scomunica, ma la relazione terapeutica usata come atto di obbedienza. Così, ciò che nasce per guarire diventa mezzo di controllo, e la cura si trasforma in sorveglianza dell’anima.
Il sacerdote stanco
È qui che un prete, giovane ma già consumato, si è presentato un mattino al palazzo vescovile. Negli occhi aveva quella lucida disperazione di chi non chiede privilegi, ma solo un po’ di pace.
È uno stato d’animo che, ormai, abita molti curati e parroci in questi anni: uomini logorati da una pastorale ridotta a scadenze, rendiconti e paure, costretti a mostrarsi forti mentre dentro gridano soltanto il bisogno di essere ascoltati, riconosciuti come uomini, non come supereroi in tonaca.
Vorrebbero soltanto poter tornare a vivere il loro ministero come ponti tra Dio e il Popolo, non come amministratori di un’azienda che porta il nome di una nuova unità pastorale.
Il sorriso del potere
Il Vescovo, uomo noto per le sue ambizioni e per un passato che a Roma ricordano bene, lo accoglie con un sorriso calibrato, lo stesso con cui riceveva finanziatori, politici e cardinali quando ancora occupava le sedie del potere nell’Urbe.
“Hai bisogno di riposo?”, chiede, mentre gira lentamente la tazzina del caffè come se fosse un rosario mondano. Il prete annuisce. Con voce calma spiega che anche lo psicologo che lo segue gli ha consigliato una pausa, per ritrovare equilibrio e serenità. Oggi, il rischio di burnout tra i sacerdoti non è più un’ipotesi remota: è una realtà che si consuma nel silenzio delle case canoniche.
Le parrocchie vengono accorpate in unità pastorali, ma le chiese da amministrare restano le stesse; le Sante Messe da celebrare aumentano, mentre i preti diminuiscono, logorati da un peso che nessuno può reggere a lungo.
I sacerdoti vivono sospesi tra l’obbedienza e la stanchezza, tra il dovere e l’esaurimento, e spesso finiscono per confondere la croce con la fatica.
Al sentire quelle parole la conversazione cambia tono. Il Vescovo si fa più vicino, come chi vuole mostrarsi paterno ma pensa da stratega: «Lascia stare quello. Ti mando io da uno bravo. Uno che conosco io».
Quando la cura diventa controllo
Il curato non sa se il Vescovo stia scherzando o se parli sul serio. Lo fissa negli occhi e capisce, con un brivido, che purtroppo non è uno scherzo. È l’inizio di un gioco sottile, antico quanto il potere ecclesiastico, che qualcuno ama fingere di disprezzare soltanto perché ha rinunciato a oro e pizzi. Ma il potere non abita nei paramenti: è una forma mentis, un modo di respirare e di dominare, che nulla ha a che vedere con il sacro.
Anzi. Almeno certi abiti dovrebbero ricordare a chi li indossa la propria vocazione di padre e di pastore; oggi, invece, si preferisce la giacca con la croce pettorale nel taschino, come un distintivo aziendale. Più che padri, sono diventati amministratori delegati, pronti ad alzare la voce o a manipolare quando il “fatturato pastorale” non raggiunge i numeri necessari a far sopravvivere l’azienda.
Il terapeuta viene scelto dal superiore non per curare, ma per indirizzare; non per guarire, ma per convincere. In certi ambienti della Chiesa cattolica, la psicologia non è più la scienza che supporta, ma una tecnica di docilità, un linguaggio elegante per ottenere obbedienza dove la fede non basta più.
Il silenzio delle autorità italiane
Quell’uomo di Chiesa, un tempo silurato per le sue trame romane, ha imparato che il vero controllo non passa più per i documenti o le scomuniche, ma per le cartelle cliniche. Bastano pochi incontri, qualche relazione ben scritta, e il prete che resiste diventa improvvisamente “fragile”, “instabile”, “bisognoso di accompagnamento”. È così che si uccidono le coscienze: con la diagnosi, non con la condanna sfacciata.
Silere non possum lo denuncia da tempo: l’uso della psicologia come strumento di manipolazione clericale. E non si tratta di casi isolati. In Italia, dove gli ordini degli psicologi sembrano più pronti a proteggere i colleghi “cattolici” che a vigilare sul rispetto dell’etica professionale, nessuno indaga davvero. In altri paesi, le forze di polizia e la politica hanno aperto inchieste su quelle che chiamano “terapie di conversione”, dove la fede diventa giustificazione per curare ciò che non è malattia. Da noi, invece, tutto resta in famiglia: un vescovo raccomanda, uno psicologo accoglie e diagnostica, un seminarista o un prete si sottomette. Eppure, come ricorda lo psichiatra Viktor Frankl, «l’uomo non deve mai essere un mezzo, nemmeno per il bene». Ma nella Chiesa di oggi, la cura è spesso il modo più elegante per neutralizzare.
La selezione dei puri
Anche nei seminari, la psicologia non serve a far crescere, ma a scovare. Non è accompagnamento, è selezione. Chi mostra troppa sensibilità, chi viene bollato come “non abbastanza virile”, chi è accusato di essere “troppo rigido” o “tradizionalista”, chi suscita sospetti per “amicizie particolari”, chi osa guardare negli occhi invece di abbassare lo sguardo, chi non teme di svelare l’ideologia dei formatori, chi si rifiuta di partecipare a certi giochi di potere o a dinamiche marce: tutti finiscono nel registro degli osservati. Poi arriva la formula rituale, gentile come una carezza ma tagliente come un decreto: «Ti rimandiamo al discernimento». È la parola dolce dell’esclusione, la maniera ecclesiastica di dire che non sei dei loro. Solo pochi saggi, oggi, si accorgono del disastro che si consuma sotto i loro occhi. C’è chi parla di “crisi vocazionale”, di “mancanza di preti”, di “tempi difficili”, ma pochi hanno il coraggio di pronunciare la verità: la formazione ha fallito. Completamente.
Lo si vede ogni giorno, nelle parrocchie e nei corridoi delle curie. Lo si intuisce da certi sorrisi compiaciuti, da quella sicurezza ostentata che tradisce fragilità mai curate. Appena spunta un problema, c’è chi va in crisi. Cosa aspettarci, del resto? Si sono favoriti uomini deboli e narcisisti, preti convinti che il centro del mondo coincida con il proprio specchio. Li abbiamo educati a piacere, non a servire; a giudicare, non ad amare; a mostrarsi irreprensibili, anche quando dentro cadevano a pezzi.
Sono i figli di una Chiesa che ha preferito l’obbedienza cieca alla verità scomoda, la piaggeria alla libertà interiore. Nei seminari, si è promosso chi chinava il capo, non chi lo sollevava per chiedere conto delle cose. Chi annuiva davanti e accoltellava dietro, chi si piegava ai giochi di potere, chi sapeva restare utile al sistema. Gli altri, quelli che parlavano chiaro, sono stati messi alla porta, spediti “al discernimento” o accompagnati all’insegnamento della religione cattolica.
E adesso fingiamo sorpresa. Ci lamentiamo dei preti instabili, delle parrocchie divise, dei collaboratori che si accusano a vicenda come comari di paese. Ci scandalizziamo di certi scandali, di certi atteggiamenti, di certi vuoti di fede. Ma è inutile far finta di non sapere: questo è il frutto della formazione che abbiamo voluto d imposto a tutti i costi. La colpa non va cercata altrove. È tutta nostra — e, come sempre, la stiamo ancora negando.
Il silenzio dell’anima
Così, sotto la croce di pietra e il blasone episcopale che sovrasta il palazzo, continua un dramma silenzioso, piccolo solo in apparenza.
Il sacerdote torna a casa con un biglietto ripiegato in tasca: il nome di uno “psicologo di fiducia del Vescovo”. Arrivato nella sua stanza, lo estrae lentamente, lo osserva per un istante, poi lo piega di nuovo con cura e lo ripone nel cassetto del comodino. Ha capito che, ancora una volta, il Vescovo non intende aiutarlo. A quello sta pensando lo psicologo laico che lo accompagna da tempo, fuori dai recinti ecclesiastici, e che con pazienza lo guida a ritrovare dentro di sé gli strumenti per affrontare la quotidianità della propria esistenza e del proprio ministero. Il Vescovo, invece, non vuole far altro che orientarlo, convincerlo, correggerlo: non per il suo bene spirituale o psicologico, ma per una ragione più prosaica e impietosa — la necessità della diocesi di tappare un buco. Il giovane prete si inginocchia sull’inginocchiatoio accanto al letto. Davanti a lui, il crocifisso che lo accompagna fin dai giorni del seminario — lo stesso che ha portato con sé in ognuna delle due parrocchie che ha già dovuto lasciare. Lo fissa a lungo, in silenzio. E dentro quel silenzio, più eloquente di mille parole, domanda soltanto: Chi è davvero il malato?
p.A.S.
Silere non possum