The beauty of monastic life. How does it come about? What is its peculiarity?

Se ci chiedessimo quando è nato il monachesimo, non potremmo dare una risposta esatta. Sappiamo, però, che, nelle altre confessioni, ha preceduto il cristianesimo di molti secoli. Ciò dimostra che il monachesimo è un fenomeno naturale e corrisponde ad un bisogno, un desiderio dell’essere umano.

Ci sono state alcune anticipazioni del monachesimo cristiano nel tardo giudaismo e nella Chiesa primitiva. Pensiamo alla comunità essena di Qumran (קומראן) e alla vita di Giovanni il Battista. Egli visse nel deserto, in ascesi, mantenendo il celibato e il digiuno regolare, al servizio della sua dedizione a Dio e della missione profetica affidatagli. Anche la prima comunità cristiana di Gerusalemme è spesso indicata come modello di monachesimo, in quanto i credenti vivevano insieme in una comunità radicale, mettendo in comune tutti i loro beni.

Durante i secoli di persecuzione, l'idea di separarsi dall'intera società e di vivere una vita di preghiera nel deserto o in un luogo remoto sembra essersi diffusa spontaneamente in tutto l’Impero Romano.

Antonio Abate: padre del Monachesimo

Fu Antonio Abate a far entrare seriamente questa idea nel pensiero cristiano.

Antonio nacque nel 251 circa, cioè quando gli imperatori erano ancora pagani e perseguitavano il cristianesimo. Morì molto anziano verso il 356, ovvero alcuni decenni dopo che Costantino, diventato imperatore, aveva iniziato a portare il cristianesimo verso il riconoscimento di religione ufficiale dell’Impero. Se la vita di Antonio è divenuta così conosciuta, è grazie a Sant'Atanasio, il quale scrisse “la vita del beato Antonio il Grande”. La vita di Antonio era “per tutti”. Atanasio, infatti, voleva presentare Antonio come un modello per tutti i cristiani. Agostino racconta nelle sue Confessioni l'effetto che ebbe su di lui quando la lesse. Il santo vescovo racconta come, mettendo la propria vita, così compromessa, così egocentrica, così invischiata nelle cose del mondo e della carne, a confronto con quella di Antonio, così pura, così radicale, così evidentemente santa, si mise a piangere.

La vocazione di Antonio nacque quando, non ancora ventenne, si recò in una chiesa e ascoltò il Santo Vangelo. Quel giorno la liturgia prevedeva il racconto del giovane ricco: “Ait illi Iesus: “ Si vis perfectus esse, vade, vende, quae habes, et da pauperibus, et habebis thesaurum in caelo; et veni, sequere me ”. Mt 19,18

Proprio come avvenne, circa mille anni dopo, a Francesco d’Assisi. Antonio sentì queste parole rivolte proprio a lui. Decise così di non indugiare, andò e vendette tutto. Inizialmente tenne un po’ di denaro perché dovette occuparsi della sorella minore.

Il giorno seguente, però, la liturgia aveva un altro passo del Vangelo di Matteo: “Nolite ergo esse solliciti in crastinum; crastinus enim dies sollicitus erit sibi ipse. Sufficit diei malitia sua”. Antonio non ebbe scampo. Affidò la sorella alle cure di alcune suore e diede via tutto. Antonio era ormai libero di dedicare tutta la sua vita alla sequela di Cristo.

Come fare, in che modo? Sono diverse le modalità con cui il Signore ha chiamato i suoi figli a seguirlo. Antonio lo fece in modo radicale. Oggi i monaci si distinguono fra cenobiti ed eremiti. Antonio scelse questa seconda via e andò a vivere nel deserto in completa solitudine. Lì ha digiunato, ha fatto veglie notturne e ha condotto una vita di preghiera incessante.

Atanasio racconta che Antonio si addentrò sempre più nel deserto, anche al fine di sfuggire alle tante persone che lo cercavano per la sua fama di santità.   Alla fine, trovò una remota fortezza in rovina e vi trascorse 20 anni in solitudine. Sopravviveva con del pane secco che gli venivano portato periodicamente. Ma alla fine si sparse la voce su di lui e una folla si mise a cercarlo e a trascinarlo via, se necessario, con la forza. Tutti pensavano che fosse completamente pazzo. La storia ce lo insegna, ogniqualvolta qualcuno vive uno stile di vita, o predica qualcosa di differente “dalla massa”, viene etichettato come pazzo, insano di mente.

Con Cristo hanno fatto così, con Antonio, con Bruno di Colonia e tanti altri. Ma Antonio non era pazzo, era sanissimo di mente.

Come racconta Sant’ Atanasio, quando Antonio vide la folla che si recò da lui, non fu né euforico né sgomento. Dava validi consigli spirituali alla gente, curava i loro malati, contrastava l'eresia. In questo modo il suo intero stile di vita fu autentico. Due cose in particolare furono evidenti: in primis, seguire Cristo, senza alcun compromesso, non arreca alcun male, anzi; in secundis, Antonio seguiva davvero Gesù, e non solo le sue illusioni.

In seguito, Antonio formò molti altri e li aiutò a seguire il suo stesso cammino verso Dio e, sebbene non sia stato certamente il primo monaco, è conosciuto come il Padre dei monaci. Sempre, però, si ritirava di nuovo nella santa solitudine, nella quale morì in stato di grazia.

La vita monastica

Da quel giorno ad oggi, il cuore della vocazione monastica è stato quello di fare ciò che fece Antonio: allontanarsi dalla società, dal mondo, da tutto ciò che la maggior parte delle persone cerca nella vita, per cercare Dio solo. E da quel giorno ad oggi, i monaci hanno capito che la loro vocazione non li separa dalla Chiesa, ma al contrario li colloca nel suo cuore. Un monaco, dice Evagrio, è separato da tutti solo per essere unito a tutti. Lungi dall'odiare la Chiesa e il mondo, anzi, li ama nel cuore di Cristo e si sforza di sostenerli con la sua preghiera. In questo modo, l’attività della Chiesa militante diviene più forte e sostenuta dalla preghiera della vita contemplativa che, già sulla terra, pregusta uno spicchio di quella che è la Chiesa trionfante.

Oggi, purtroppo, il pensiero mondano prevale e vi sono molti ecclesiastici che giocano a fare gli psicologi. Si pensa alla vita monastica come ad un progetto egoistico, addirittura antisociale. La Storia, però, ci insegna che la Chiesa ha sempre difeso, custodito, sostenuto la vita monastica ed è anche intervenuta a sua difesa per mantenerne la purezza.

È utile considerare l’esempio di Cristo stesso. Per trent’anni ha vissuto una vita “familiare”, in un remoto villaggio di provincia, in circostanze umili. Poi per tre anni ha predicato, insegnato, guarito i malati, dato da mangiare agli affamati, risuscitato i morti, formato i suoi discepoli. Infine, proprio al termine del suo ministero, rinunciò a tutto volgendo lo sguardo verso Gerusalemme. Quando era appeso alla croce, tutti erano convinti che il suo “potere” era terminato. In realtà, sempre contrariamente alla logica mondana, Gesù Cristo ha compiuto lì la sua vera opera. Proprio lì ha salvato l’intera umanità, lì ha portato la redenzione, lì ha proclamato forza il Vangelo dell'amore incondizionato di Dio - amore fino alla fine - per tutti, lì ci ha aperto la via della vita eterna. 

Una delle ricchezze meravigliose del monachesimo è l’enorme letteratura che ha prodotto. Abbiamo attraversato più di diciassette secoli e i monaci non hanno mai smesso di scrivere in tutto questo tempo, ma il periodo più fertile e fecondo per la scrittura è stato il primo periodo: i primi secoli. Oltre ai padri del deserto in Egitto, che scrivevano sia in copto che in greco, abbiamo la prima letteratura monastica in siriaco, armeno e latino; dalla Cappadocia, dalla Palestina, dalla Croazia, dalla Francia e dall'Italia, dal Nord Africa e dall'Irlanda...

La straordinarietà è che ciò che insegnano questi monaci può essere applicato praticamente a chiunque, in qualsiasi situazione, perché alla base c'è semplicemente la sequela radicale di Cristo; il vivere radicalmente il proprio battesimo. Quando le persone leggono la regola di Benedetto, gli scritti dei padri, trovano queste opere stimolanti, piene di utili intuizioni.

È molto bello leggere che questi maestri dello spirito parlano spesso con una buona dose di umorismo, di come ci inganniamo facilmente, di come ci lasciamo facilmente e spesso fuorviare e di come possiamo mantenerci in modo sano sul cammino verso la vera santità.

Per San Benedetto, la vocazione monastica è definita come ricerca di Dio. Se Dio non esistesse, non avrebbe senso né scopo. Le persone, in passato e ancor oggi, diventano monaci o monache perché hanno fame di Dio, hanno desiderio di Dio.

“Unum petii a Domino, hoc requiram: ut inhabitem in domo Domini omnibus diebus vitae meae, ut videam voluptatem Domini et visitem templum eius”, dice il Salmo 26.

Giovanni Cassiano descrive il "vedere Dio" come l'obiettivo del monaco; ma per farlo abbiamo bisogno di un obiettivo intermedio, che è la purezza del cuore. Come disse Gesù nelle Beatitudini, “Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt.”.

La ricerca della “purezza del cuore” diventa quindi centrale nella vita monastica. Un altro termine per definirla sarebbe un cuore indiviso. San Paolo scrive: “Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!” 1 Cor 7,33. La vita monastica può essere paragonata ad un cuore completamente donato a Dio. Perciò il cammino monastico tende sempre alla semplicità del cuore e della vita. Il desiderio è quello di avere un cuore che arde di amore divino, un cuore libero di amare e di ricevere amore.

Come alimenta questa relazione d'amore con Dio il monaco? Attraverso la preghiera. La vita monastica è, prima di tutto, una vita di preghiera. Certamente lo è anche la vita cristiana in quanto tale. Paolo dice ai tessalonicesi: "Pregate senza sosta". Rivolge questo comando a tutti i cristiani. Ma i primi monaci erano ossessionati da questo desiderio. Alcuni soffrivano perché si rendevano conto dell’impossibilità di giungere ad una contemplazione perfetta. Sant’Agostino indica una soluzione a questo problema quando dice che preghiamo incessantemente se desideriamo Dio incessantemente. Questo desiderio può durare, almeno in teoria, anche quando si è occupati in altre cose: parlare, scrivere, mangiare o dormire.

La preghiera comune

Ma come possiamo mantenere questo desiderio sempre vivo, sempre focalizzato come vorremmo? La soluzione monastica a questo problema è stata elaborata molto presto e viene seguita tuttora: la liturgia delle ore, la preghiera in comune. I monaci pregano ad orari prestabiliti durante il giorno e la notte, soprattutto utilizzando la preghiera dei Salmi. Poi, negli intervalli, lavorano. Mentre lavorano cercano di mantenere sempre la preghiera del cuore: un'attenzione amorevole al Signore.

La vita monastica viene spesso definita come una vita di preghiera e di lavoro, proprio secondo la Regola: ora et labora. In questa definizione, però, spessi si dimentica un terzo elemento che è altrettanto essenziale: la lettura spirituale, e in particolare la lettura della Sacra Scrittura. I Padri amavano dire: “Quando preghiamo, parliamo con Dio. Quando leggiamo, Dio ci parla”. Qui, appunto, ha particolare in portanza la Lectio Divina.

D.L.F.

Silere non possum