The question that most embarrassed Pope Francis during his meeting with the Jesuits.

“Qual è stato il suo rapporto con p. Ferenc Jálics? Che cosa è successo? Come ha vissuto in quanto Provinciale quella tragica situazione? Lei ha ricevuto pesanti accuse…” Sono bastate queste semplici domande per far gelare il sangue nelle vene di Jorge Mario Bergoglio, il 29 aprile 2023 nell’incontro con la Compagnia di Gesù in Ungheria. 

La domanda è stata rivolta a Francesco da un suo confratello gesuita che vive in Ungheria e si riferisce al reverendo padre Ferenc Jálics S.I. il quale è di orgine ungherese ma è stato un gesuita in servizio in Argentina quando Jorge Bergoglio era provinciale. Ci riferiamo, quindi, a quel periodo che ha segnato la rottura fra Bergoglio e il suo ordine di appartenenza. A seguito di quegli anni, proprio per via di numerose vicende problematiche che il giovane Jorge alimentò, fu spedito in Germania “a studiare” in quello che era un vero e proprio esilio.

La storia

Francesco risponde in modo convinto: “Sappiate che un mese fa la Conferenza episcopale argentina ha pubblicato due volumi dei tre previsti con tutti i documenti relativi a quanto accaduto tra la Chiesa e i militari. Trovate tutto lì.”

Ma chi sono Ferenc Jálics e  Orlando Yorio?

I due sono gesuiti e mentre svolgevano attività sociali nei quartieri poveri di Buenos Aires negli anni ’70, quando Jorge Mario era provinciale, furono illegalmente rapiti dai militari argentini per cinque mesi durante l’ultima dittatura civile-militare (1976-1983) in Argentina.

Il preposito generale della Compagnia di Gesù, Pedro Arrupe, a Roma, fu informato con una lettera a seguito del rapimento.

Nel libro intitolato “Ejercicios de contemplación – Introducción a la forma de vida contemplativa y a la invocación a Jesús”, padre Jalics ha raccontato:

“Durante il lungo sequestro che ho vissuto, ho attraversato un importante processo interiore che ci aiuterà a capire come avviene la redenzione attraverso gli Esercizi Spirituali. Era il periodo della guerra civile tra gruppi di estrema destra e di estrema sinistra nella società argentina; gli studenti universitari erano in subbuglio a causa degli eventi del momento. Sentivano una forte pressione per unirsi alla guerriglia. A quel tempo vivevo con un collega ai margini della baraccopoli di Bajo Flores a Buenos Aires. Eravamo entrambi professori di teologia in due università diverse. Volevamo testimoniare che, nonostante la miseria, era possibile fare qualcosa per i poveri con mezzi pacifici. La Chiesa ufficiale e i nostri superiori ci affidarono quindi la missione di andare a vivere tra i poveri. Ma molte persone con convinzioni politiche di estrema destra non vedevano di buon occhio la nostra presenza nelle baraccopoli. Interpretavano il fatto che vivessimo lì come un sostegno alla guerriglia e volevano denunciarci come terroristi. Sapevamo da che parte tirava il vento e chi era il responsabile di queste calunnie. Così andai a parlare con la persona in questione e le spiegai che stava giocando con le nostre vite. L’uomo mi ha promesso che avrebbe fatto sapere ai militari che non eravamo terroristi. Dalle dichiarazioni successive di un ufficiale e dalla testimonianza di trenta documenti a cui ho potuto accedere in seguito, abbiamo potuto constatare senza ombra di dubbio che quest’uomo non aveva mantenuto la sua promessa ma, al contrario, aveva presentato una falsa denuncia all’esercito. Questo basterà, per il momento, come quadro generale degli eventi. Il 23 maggio 1976, una domenica mattina, trecento soldati pesantemente armati e auto di pattuglia della polizia circondarono la nostra baracca ai margini della baraccopoli. Dopo aver coperto tutta la zona, entrarono brutalmente in casa nostra, ci legarono le mani dietro la schiena, ci incappucciarono, quasi ci soffocarono e ci rapirono. Per cinque giorni sono rimasto sdraiata sul pavimento di pietra, praticamente senza cibo, incappucciato e con le mani ammanettate dietro la schiena. Nel frattempo, il mio compagno se la passava molto più duramente di me. Gli erano state somministrate delle droghe, in modo che sotto effetto di stupefacenti dicesse ciò che altrimenti non avrebbe detto. Come scoprimmo in seguito da alcuni ufficiali, contro ogni aspettativa iniziò a parlare di Dio e di Gesù Cristo. I militari sono rimasti molto colpiti. Erano convinti che fossimo terroristi. Il quinto giorno siamo stati trasferiti in una casa privata. Ci hanno tolto i cappucci e ci hanno messo le bende sugli occhi, in modo che non ci sentissimo più soffocare. 

Invece di tenerci le mani dietro la schiena, ci hanno ammanettato sul davanti, il che significava che eravamo sollevati di essere sdraiati. Più tardi, quel giorno, un ufficiale venne da noi e ci disse che eravamo innocenti e che avrebbe fatto in modo che potessimo tornare al più presto nel nostro misero villaggio. Queste furono le ultime parole che sentimmo sul nostro rapimento per cinque mesi. Fino alla fine della nostra prigionia siamo stati ammanettati. In ogni momento avevamo una gamba attaccata a una pesante palla di cannone. Fino al momento del rilascio siamo rimasti bendati. Molto tempo prima, entrambi avevamo iniziato a meditare con la semplice ripetizione del nome di Gesù. Con il passare dei giorni, dalla mattina alla sera, ripetevamo questa semplice preghiera. Quando il quinto giorno l’ufficiale ci assicurò che saremmo stati rilasciati, evidentemente comunicò questa decisione agli otto sottufficiali che ci sorvegliavano. Uno di loro ci informò quella sera che i rilasci avvenivano sempre di sabato. Ne fui felice, perché era venerdì. Ma il sabato passò e non fummo rilasciati. Ero furioso. L’ingiustizia di essere privato della libertà, nonostante la mia manifesta innocenza, mi provocò un profondo senso di impotenza e di rabbia. Questa rabbia era rivolta soprattutto all’uomo che aveva mosso le false accuse contro di noi. Dopo aver trascorso un giorno immerso in questa rabbia impotente, fui sopraffatto da un’intensa paura: “Cosa succederà? Lo spettro dell’esecuzione prese di nuovo forma. La paura, associata a un tremito interiore, durò un giorno e mezzo. Poi fui sopraffatto dalla depressione: “Tutto è perduto! Ancora oggi, questa sensazione non sembra esagerata. Quando, dopo diversi anni, i comandanti responsabili furono processati, delle seimila persone che questo gruppo militare da solo aveva rapito, non c’erano altri testimoni superstiti oltre a noi due. Erano stati tutti uccisi”.

Inizialmente, Franz Jalics, mise in dubbio il ruolo che ebbe Jorge Mario Bergoglio nella sua detenzione. Magicamente, quando Bergoglio è stato eletto Papa, Jalics ha iniziato a diventare omertoso sul tema e prima ha detto che non poteva pronunciarsi, poi si è associato a dichiarazioni del portavoce della Sala Stampa della Santa Sede dicendo di aver avuto “l’opportunità di parlare di questa questione con padre Bergoglio (…) Sono riconciliato con gli eventi e ritengo che sia giunto il momento di chiudere il caso”.

“Questi sono i fatti: Orlando Yorio e io non siamo stati denunciati da Bergoglio”, ha dichiarato Jalics in una dichiarazione pubblicata sul sito web della Compagnia di Gesù in Germania nel marzo 2013. Ha detto che lui e Yorio sono stati rapiti a causa del loro legame con un catechista che ha lavorato con loro per un certo periodo e “poi si è unito alla guerriglia”. E ha sottolineato: “Per nove mesi non l’abbiamo più vista, ma due o tre giorni dopo il suo arresto siamo stati arrestati anche noi”.

Diversamente da lui, invece, padre Orlando Yorio ha continuato a criticare e mettere in dubbio l’operato di Jorge Mario Bergoglio, che era il loro provinciale, fino alla sua morte, avvenuta nel 2000. 

Horacio Verbitsky, un giornalista che indagò sul caso, nel 1999 pubblicò sul quotidiano argentino Página 12 un articolo nel quale scriveva: “I due sacerdoti gesuiti mi dissero che lui (Jorge Mario Bergoglio) li aveva traditi. Che li ha consegnati ai militari”. “Nel 1999 ho parlato con i sacerdoti e con Bergoglio ed entrambi mi hanno dato versioni contrastanti, poiché Bergoglio mi ha detto che aveva cercato di aiutarli”, ha scritto.

Verbitsky ha anche dichiarato: “Anni dopo ho trovato alcuni documenti negli archivi della Cancelleria che chiariscono la situazione: Bergoglio ha fatto quello che ha detto (cioè aiutare i sacerdoti), ma ha anche fatto quello che i sacerdoti hanno detto (scrivere rapporti negativi su di loro)”. Oggi Francesco cita i volumi raccolti dalla Conferenza Episcopale Argentina. Questi documenti ci sono? Oppure si tratta di volumi creati ad hoc per coprire le responsabilità del Papa?

Certo è quantomeno sorprendente l’atteggiamento di questi due sacerdoti ed è ancor più incredibile come il Papa risponda, oggi, ad una domanda di un suo confratello gesuita inviandolo a vedere determinati scritti “recentemente pubblicati” ma non si soffermi sulle accuse che gli furono mosse. Non nega di aver scritto su di loro e non nega di aver avuto contatti con i rapitori. 

Francesco dedica molto spazio a questa domanda, più di tutte le altre. Ci tiene a dire: “Io ho fatto quel che sentivo di fare per difenderli” ma non spiega cosa ha fatto. Si spende anche a spiegare che i giudici che lo giudicarono, quando poi lui è diventato Papa, si sono anche scusati con lui e hanno confessato che il governo voleva strumentalizzare la questione. Di tutto questo, però, non c’è alcuna prova ma solo le parole (sempre molto poco credibili) di Francesco. Il quale, non dimentichiamolo, non è la prima volta che mente per “uscirne pulito”. 

S.I.

Silere non possum