Cardinal Piacenza reminds priests of the importance of the sacrament of confession.

“Noi siamo sacerdoti per dare al mondo la Vita eterna! La Chiesa esiste per annunciare agli uomini la salvezza in Gesù Cristo e per donarla loro attraverso la celebrazione dei sacramenti. Tutto il resto, pur bello e certamente doveroso, è una conseguenza, una estensione del Regno di Dio che, dalla fede, scaturisce”.

Si esprime con queste parole, chiarissime, il Penitenziere Maggiore. In apertura del XXXIII Corso sul Foro Interno organizzato dalla Penitenzieria Apostolica, Mauro Piacenza ricorda ai sacerdoti che il sacramento della Penitenza non è materia su cui si può essere lassisti. Mentre il Pontefice, anche durante l’evento 24Ore per il Signore, ha detto: “perdonate tutto, perdonate sempre, senza mettere il dito troppo nelle coscienze”,il cardinale Piacenza ha ribadito: Non è misericordia mentire sul peccato e men che meno lo è lasciare i fedeli in stato di peccato a causa della pavidità del confessore nel parlare al fedele, come padre autorevole e medico premuroso” e ancora: “il singolo sacerdote ha il grave dovere di ammonire il peccatore circa la gravità della propria condizione e, se non lo facesse, ne risponderebbe egli stesso davanti a Dio”. 

Nella sua Lectio Magistralis, il Penitenziere si è concentrato su un tema particolarmente importante:  “Il dono dell’indulgenza: nel cuore del mistero della Redenzione”. 

“Se San Giovanni Maria Vianney ci ricorda che “Dio ci perdona anche se sa che peccheremo di nuovo”  ha detto il porporato –un ruolo fondamentale, proprio per il rispetto dovuto al dono ineffabile della libertà che Dio ci ha data, è da riconoscere al proposito attuale di non continuare a commettere i peccati di cui ci si confessa. L’eco di tale fondamentale disposizione è recepita anche in quella richiesta, tipica per l’ottenimento dell’indulgenza plenaria, del “distacco da ogni affetto verso il peccato anche veniale”.

Poi, l’importanza della preghiera per la Chiesa, per il Successore di Pietro: “La preghiera del Credo incardina l’indulgenza nella oggettiva professione di fede della Chiesa. In questo nostro tempo, fin troppe derive morali e dottrinali hanno oscurato e oscurano il volto della Sposa di Cristo! La professione ferma e umile della fede niceno-costantinopolitana, con la consapevolezza, soprattutto per noi ministri, della sua gravità e del cammino che la Chiesa ha compiuto nei primi secoli per giungervi, diviene condizione perché il dono dell’indulgenza sia ottenuto. Come a dire che non si può separare l’ortodossia dall’ortoprassi, né a favore dell’ortodossia, come talvolta può accadere, né tanto meno a favore di una presunta ortoprassi, come se un determinato modo di agire per il cristiano potesse giustificare o “coprire” le mancanze o le deficienze di fede”. 

Papa Francesco: "Mai i confessionali vuoti"!

Giovedì 23 marzo 2023, il Sommo Pontefice, ricevendo i partecipanti al XXXIII Corso sul Foro Interno ha detto: "Penso ai piani pastorali delle Chiese particolari, nei quali non dovrebbe mai mancare un giusto spazio per il servizio della Riconciliazione sacramentale. In particolare, penso al penitenziere in ogni cattedrale, ai penitenzieri dei santuari; penso soprattutto alla presenza regolare di un confessore, con ampio orario, in ogni zona pastorale, così come nelle chiese servite da comunità di religiosi, che ci sia sempre il penitenziere di turno. Sempre, mai confessionali vuoti! “Ma – potresti dire – la gente non viene!”: leggi qualcosa, prega; ma aspetta, arriverà".

In vista del Giubileo del 2025 il Papa ha detto: "E vi invito a riscoprire, approfondire teologicamente e diffondere pastoralmente quel naturale ampliamento della misericordia che sono le indulgenze, secondo la volontà del Padre celeste di averci sempre e solo con sé, sia in questa vita sia nella vita eterna".

L.M.

Silere non possum

Lectio Magistralis di S.E.R. il Sig. Cardinale Mauro Piacenza

“Il dono dell’indulgenza: nel cuore del mistero della Redenzione”

Cari Amici,
Ho davanti Confratelli e Seminaristi e quando sono in mezzo a voi devo dirvi che sono sempre felice. Ho sempre sentita vivissima la gioia del quam bonum et quam iucundum…, per cui è per me motivo di profonda gratitudine essere con voi oggi, per questo XXXIII Corso sul Foro interno, così fortemente voluto nel 1990 (forse alcuni di voi non erano nemmeno nati) da San Giovanni Paolo II, con una straordinaria intuizione, che non esito a definire profetica, rispondendo in tale modo ad una diffusa esigenza ecclesiale e ministeriale.

Tema di questa Lectio – come avete visto nel programma – è il dono dell’indulgenza.

Ci si potrebbe domandare il senso di questo, in un’epoca segnata da un sempre più spaventoso secolarismo, che rende gli uomini, in generale, e talvolta perfino i nostri fedeli, incapaci di alzare lo sguardo al Cielo, tutti ripiegati sulle cose della terra, sulle pur necessarie esigenze terrene, ma distratti dall’Unico necessario, da ciò che è davvero indispensabile: lo sguardo al Cielo ed il rapporto personale con Dio.

Proprio in un’epoca secolarizzata come la nostra, acquista, invece, un profondo valore profetico l’approfondimento del tema, soprattutto per i ministri della riconciliazione.

Articolerò la Lectio in tre momenti, guardando insieme all’orizzonte dottrinale, poi a quello storico ed infine a quello spirituale e pastorale.

1. Orizzonte dottrinale

«L’indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale dovuta per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della Redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi» (Enchiridion Indungentiarum, n. 1).

Come è evidente, siamo nel cuore del mistero della Redenzione, nel cuore dell’opera di Cristo incarnato, morto e risorto per noi e per la nostra salvezza.

Di particolare rilievo nella comprensione della dottrina delle indulgenze è la “dimensione temporale”, alla quale il testo fa riferimento, e che richiama ad un dato oggi spesso trascurato: la strutturale dimensione storica del Cristianesimo.

Le tante “riduzioni” della fede cattolica, che abbiamo davanti ai nostri occhi: dalla riduzione moralistica a quella spiritualistica, dalla riduzione sociale a quella umanitarista, ci richiamano con sempre maggiore urgenza ad evitare attentamente errori, e perfino eresie, che nel passato si sono mostrati devastanti. La dimensione storica del Cristianesimo è il primo grande antidoto contro ogni tendenza gnosticheggiante o esplicitamente gnostica, che, in definitiva, spinge l’uomo in false concezioni auto-redentive, legate alla conoscenza soggettiva.

Se la salvezza non è legata all’evento storico dell’incarnazione e della morte in Croce di Cristo – e ovviamente della Sua Risurrezione – non è la salvezza cristiana! Da troppe parti, le sirene del mondo suonano all’unisono perché la fede in Cristo Risorto si riduca ad un vago deismo, svuotato del fatto dell’Incarnazione, moralistico, ma senza le ragioni di un’autentica morale, e dal vago sentore terapeutico, vincolando il giudizio di verità e di bene, solo al soggetto e al proprio “mutevole sentire”.

Sappiamo quanto mortale possa essere questo pericolo per le nostre anime e per quelle dei fedeli a noi affidati. Il pericolo è diffuso ed è necessario e urgente ribadire sempre che Cristo è l’Unico Salvatore e che solo in Lui c’è salvezza. Ogni altra possibilità di salvezza, se si realizza, si realizza solo per i meriti di Cristo sulla Croce e non senza la mediazione del Suo Corpo che è la Chiesa.

Il nostro Redentore, vero Dio e vero Uomo, ha donato tutto Se stesso, ha versato il Suo Sangue per la salvezza dell’umanità. Quel Sangue, del quale una sola goccia avrebbe potuto salvare il mondo (“Cuius una stilla salvum facere totum mundum”) è stato abbondantemente, anzi totalmente versato dal nostro Redentore, in una sovrabbondanza di misericordia, della quale mai potremo essere né adeguatamente consapevoli, né sufficientemente grati.

E tale abbondanza di misericordia, perennemente attualizzata e rinnovata nel sacramento della Riconciliazione, vede nella Chiesa la sua prima custode. Per questa ragione, “autoritativamente”, cioè utilizzando l’autorità apostolica che Cristo stesso le ha conferito, la Chiesa, sapientemente e prudentemente, attinge dal tesoro della divina Misericordia, non solo il perdono dei peccati commessi dai fedeli dopo il Battesimo, ma anche la remissione delle pene temporali ad essi legate.

L’annuncio gioioso delle indulgenze è allora uno solo: è possibile farsi santi ed è possibile vivere santamente già questa vita terrena, accogliendo, ogni volta che sarà necessario, il dono della divina Misericordia e vivendo permanentemente nell’abbraccio amorevole di Dio, che sempre ci rinnova il Suo “Sì”, anche attraverso il dono dell’indulgenza.

In un orizzonte secolarizzato anche nel linguaggio, come quello in cui siamo immersi, non è semplice parlare di indulgenze o di remissione della pena temporale. Penso, tuttavia, che si possa adeguatamente presentare questo dato di fede, interpretandolo in chiave relazionale: come l’amata ha sempre il cuore aperto verso l’amato e anela a lui, così l’anima è chiamata ad una permanente tensione verso il suo Signore; tensione alimentata, orientata e permanentemente sostenuta dal dono ecclesiale dell’indulgenza.

Soprattutto le indulgenze parziali (che potrei definire anche “indulgenze feriali”), che più volte nella giornata, attraverso una giaculatoria, un gesto penitenziale, la lettura di un versetto delle Scritture, un atto di carità, possiamo ottenere, mantengono costantemente il nostro cuore aperto a Dio e il nostro sguardo rivolto al Cielo.

E che cos’è la vocazione alla santità se non la chiamata a guardare in alto, ad avere il cuore ferito e dunque aperto verso Nostro Signore e la Sua Santissima Madre, orientando ogni gesto, ogni parola, ogni respiro all’Unico necessario, al Signore e Salvatore delle nostre esistenze, della Chiesa e del mondo?

Se ci fermiamo un istante a riflettere, insieme allo stupore per l’opera della Creazione e della Redenzione, emerge con chiarezza come l’indulgenza si collochi non solo nell’ambito redentivo, ma per la sua ricchezza ci sospinga nel terzo grande movimento della storia della salvezza: la santificazione. In tal senso, le indulgenze mantengono certamente un valore espiatorio, ma di esse è sempre opportuno evidenziare anche la preziosità relazionale, spirituale e dunque di sostegno al personale cammino di santificazione.

Un ultimo elemento dottrinale delle indulgenze, che mi è caro evidenziare, è la loro dimensione profondamente ecclesiale e temporalmente trasversale. Le indulgenze sono infatti dono che la Chiesa fa, attingendo all’incommensurabile tesoro della divina Misericordia; dunque, suscitano nel cuore del fedele quella gratitudine del figlio verso la Madre che provvede ad ogni sua necessità. Nel contempo, esse rafforzano la communio sanctorum, la comunione dei santi, perché sono applicabili anche ai nostri fratelli defunti, ancora in cammino di purificazione verso la piena visione beatifica. In questo senso, le indulgenze attraversano e quasi squarciano i limiti spazio-temporali di questa nostra esistenza terrena e sono come un’anticipazione della vita da risorti, che già abbiamo ricevuto nel santo Battesimo e della quale, troppo spesso, non siamo adeguatamente consapevoli.

Risulta evidente come la catechesi sulle indulgenze possa – e forse debba – essere un punto di arrivo certamente successivo all’annuncio di Cristo, della Sua opera di Salvezza, della Chiesa come Suo Corpo visibile, dei sacramenti e in particolare dell’Eucaristia, come attualizzazione dell’opera di Cristo, della risurrezione della carne e della vita eterna, senza della quale è praticamente impossibile parlare di indulgenze.

Ciò non di meno, spesso la curiosità e la devozione del popolo può anche suggerirci il cammino inverso e cioè, partendo da un’adeguata spiegazione di una pia pratica indulgenziata, è possibile annunciare la grandezza del mistero della redenzione e, con essa, di quello della santificazione.

2. Orizzonte storico

Dal punto di vista storico, è indispensabile, quando parliamo delle indulgenze, evitare un duplice riduzionismo: quello che non vorrebbe vedere i limiti e talora perfino gli abusi, che nella storia ci sono stati, e quello opposto che ne demonizzerebbe l’uso, auspicandone l’estinzione.

Entrambe le posizioni non rispondono né alla realtà storica, né tantomeno alla sostanza teologica dell’indulgenza.

Non intendo adesso offrirvi un’approfondita analisi della storia delle indulgenze nella Chiesa, tuttavia possiamo dire che fu graduale l’assunzione di consapevolezza da parte della Chiesa della vastità del tesoro della divina Misericordia e della conseguente potestà di attingervi a beneficio dei fedeli.

Se, fin dal primo secolo, i cristiani perseguitati hanno sempre elevato le loro preghiere di suffragio anche per i fratelli defunti, è necessario attendere il secolo XI per incontrare le indulgenze propriamente dette, le quali tuttavia sono “figlie” delle redemptiones, in uso fin dall’VIII secolo, presso quegli stessi ambienti monastici irlandesi, ai quali, di fatto, dobbiamo la confessione auricolare.

È fuori dubbio che la “monetizzazione” delle indulgenze, cioè la traduzione in offerte tariffate della penitenza dovuta per i peccati, ha visto certamente nei secoli gravissimi abusi, sempre però esplicitamente deplorati e che mai hanno rappresentato l’autentico spirito delle indulgenze. Ciò non di meno, è necessario riconoscere come perfino la disponibilità a contribuire alle necessità della Chiesa, attraverso offerte economiche e ad investire ingenti patrimoni in tal senso, indicava l’esistenza di un contesto culturale, sociale e religioso nel quale l’orizzonte supremo fosse la salvezza eterna, per la quale era possibile anche sacrificare ingenti patrimoni terreni. Basterebbe questo dato, che certamente non vuole assolvere i tanti abusi commessi nella storia, paragonato all’attuale situazione delle nostre società, per comprendere il radicale capovolgimento dell’orizzonte.

Non si deve poi cadere nell’errore riduzionista di archiviare e silenziare frettolosamente il tema delle indulgenze in nome di un malinteso ecumenismo con le comunità della Riforma. Sappiamo infatti che, in quegli ambienti, non solo le indulgenze sono state delegittimate, ma la stessa azione sacramentale della Chiesa, dotata da Cristo del potere di attuare la salvezza da Lui ottenuta, è stata incredibilmente ridotta ed amputata, per non parlare della funzione della Tradizione e del Magistero.

Il Concilio di Trento ribadisce che «l’uso delle indulgenze deve essere conservato perché sommamente salutare al popolo cristiano e autorevolmente approvato dai sacri Concili, mentre condanna quanti asseriscono la inutilità delle indulgenze e negano il potere esistente nella Chiesa di concederle» (Decreto sulle Indulgenze, Denzinger n. 1835).
Lo stesso fa il Vaticano II, chiedendo alla Suprema Autorità della Chiesa di rielaborare organicamente e sinteticamente, semplificandola, la dottrina sulle indulgenze, sollecitazione che porterà alla promulgazione della Costituzione Apostolica “Indulgentiarum doctrina” del Santo Padre Paolo VI del 1 gennaio 1967. Di tale Costituzione Apostolica, l’Enchiridion Indulgentiarum è eco diretta e traduzione pastorale.

3. Orizzonte spirituale e pastorale

Ritengo che i pastori della Chiesa, oltre a conoscere l’autentica storia delle indulgenze per poter ragionevolmente e pacatamente rispondere alle eventuali obiezioni ideologiche che dovessero incontrare, possano e debbano conoscere adeguatamente sia la Costituzione Apostolica del Santo Padre Paolo VI, sia il testo esatto dell’Enchiridion, per farne almeno cenno nella predicazione e nella catechesi e, soprattutto, per farne intelligente uso nel dialogo della direzione spirituale, della catechesi e magari della stessa Confessione sacramentale.

Infatti, nell’importante cammino che conduce dall’attrizione alla contrizione, dal dolore imperfetto per i peccati alla consapevolezza che essi offendono il Signore Iddio, può svolgere un ruolo fondamentale un confessore attento ed equilibrato, capace di mostrare la reale distanza che il peccato pone tra il fedele e Dio e, nel contempo, come la divina Misericordia, gratuitamente e costantemente, sia capace di colmare tale distanza. Anche in questo ambito è necessario un costante equilibrio, poiché la gioia del perdono è direttamente proporzionale alla consapevolezza lucida, talora disincantata e perfino cruda della gravità del peccato commesso. Non è da ritenere né dottrinalmente, né pastoralmente che l’equivoco circa il giudizio sugli atti peccaminosi e la loro chiara identificazione possa portare un qualche frutto positivo.

Non è misericordia mentire sul peccato e men che meno lo è lasciare i fedeli in stato di peccato a causa della pavidità del confessore nel parlare al fedele, come padre autorevole e medico premuroso.

Solo una malintesa misericordia, priva di cristiano realismo, può abdicare al gravissimo compito di giudice e di medico che Cristo affida agli Apostoli e ai loro successori. Che Cristo affida ad ogni confessore!

Utilizzando tutti i mezzi del dialogo fraterno, dell’autentica paternità spirituale ed aiutando il fedele a percepire l’infinita bontà di Dio e la disponibilità permanente del Signore a coprire e a distruggere, con il fuoco della Sua Misericordia, ogni peccato, il singolo sacerdote ha il grave dovere di ammonire il peccatore circa la gravità della propria condizione e, se non lo facesse, ne risponderebbe egli stesso davanti a Dio.

In tale orizzonte di autentica paternità e di evangelica parresia, mi pare si possa collocare il ruolo medicinale dell’indulgenza. Essa, da un lato, mostra il peso del peccato, che, anche quando è assolto, porta con sé una pena che deve essere espiata, riparata, per l’integra salvezza della persona. Dall’altro, mostra la grandezza, l’ampiezza e la profondità della divina Misericordia, che, desiderando che tutti gli uomini siano salvati, dispone la possibilità, oggettivamente straordinaria, di vedere, già durante questa vita terrena, slegate le catene delle pene dovute per i peccati.

Emerge, a tale riguardo, tutta l’urgenza di un’adeguata formazione per tutti i pastori della Chiesa; non solo formazione accademica, sulla quale già si potrebbe dire molto, ma anche – e direi soprattutto – formazione pastorale. E se anche questo termine – “pastorale” – è stato e viene ampiamente abusato, attribuendovi ogni possibile ingiustificata soggettiva creatività, in nome di una tanto presunta quanto inefficace vicinanza alle persone, noi ben sappiamo che tutto ciò che è pastorale non può che rimandare all’unico Buon Pastore.

L’attenzione alla dottrina delle indulgenze mantiene alta la spiritualità del sacerdote, il quale sa che, quotidianamente, soprattutto attraverso l’esercizio del ministero a lui affidato, può lucrare l’indulgenza plenaria per se stesso o per un fedele defunto, e molte volte al giorno può ottenere indulgenze parziali semplicemente essendo ciò che è. Basti pensare, ad esempio, che l’indulgenza parziale è legata ad una catechesi, offerta o ricevuta, alla recita devota del Magnificat, del Sub tuum praesidium, o anche solo al segno della Croce. Quante volte il sacerdote compie il segno della Croce durante la sua giornata, da quando apre gli occhi al mattino, prima ancora di lasciare il proprio giaciglio, a quando li chiude la sera, affidando la propria intera esistenza alla Misericordia divina con il Nunc dimittis.

Se la qualità della vita spirituale dei sacerdoti, anche attraverso la conoscenza, la dimestichezza e l’uso delle indulgenze, sarà alta, non potrà che trarne giovamento anche il popolo santo di Dio.

Le stesse condizioni poste per ottenere le indulgenze sono un felice sentiero pastorale e spirituale da percorrere costantemente, sia come ministri sacri sia come fedeli laici.

Le condizioni di essere confessati, di aver ricevuto la santa Comunione, di recitare il Credo e di pregare secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, nel loro insieme, rappresentano un vero e proprio itinerario spirituale, capace, se correttamente percorso, di far passare dall’inimicizia con Dio alla piena comunione con Lui, dalla distanza del peccato, anche mortale, all’abbraccio benedicente della divina Misericordia.

La confessione sacramentale porta con sé, infatti, la remissione di tutti i peccati, mortali e veniali, commessi dall’ultima confessione e domanda al penitente un reale dolore per essi, sia esso di attrizione o di contrizione, che è il presupposto indispensabile per poter essere validamente assolti, unitamente al proposito, fondato sul valore insostituibile della libertà personale, di non peccare più. Se San Giovanni Maria Vianney ci ricorda che “Dio ci perdona anche se sa che peccheremo di nuovo”, un ruolo fondamentale, proprio per il rispetto dovuto al dono ineffabile della libertà che Dio ci ha data, è da riconoscere al proposito attuale di non continuare a commettere i peccati di cui ci si confessa. L’eco di tale fondamentale disposizione è recepita anche in quella richiesta, tipica per l’ottenimento dell’indulgenza plenaria, del “distacco da ogni affetto verso il peccato anche veniale”.

Quest’ultima condizione, tra tutte, sembra essere una di quelle più difficilmente realizzabili, poiché non pare di immediata, semplice valutazione personale la persistenza di un tale radicale distacco. Esso deve fondarsi, tuttavia, sull’atto personale della volontà: se il fedele vuole essere distaccato da ogni affetto verso il peccato, di fatto lo è già.

La seconda condizione – la ricezione della Comunione sacramentale – incardina l’esperienza dell’indulgenza nella comunione più alta che si possa avere con nostro Signore nel tempo della vita terrena: la Comunione eucaristica che è anche comunione fisica. Dio solo sa quale straordinario effetto possa avere nell’anima umana, debitamente preparata e adeguatamente confessata ed assolta, la pia ricezione della Comunione eucaristica, attraverso la quale Dio stesso, incarnato, morto e risorto, nel Suo vero Corpo, Sangue, Anima e Divinità, si unisce alla Sua creatura, dandole la propria forma, cioè cristificandola. Poiché il Padre riconosce nelle proprie creature l’immagine del Figlio, risulta chiaro come la progressiva conformazione a Cristo, determinata innanzitutto dall’unione sacramentale con Lui e implementata e manifestata da un’esistenza vissuta all’insegna della fedeltà alla di Lui Parola, sia la condizione prevalente della comunione piena con Dio, che chiamiamo Vita eterna e Paradiso.

La preghiera del Credo, poi, incardina l’indulgenza nella oggettiva professione di fede della Chiesa. In questo nostro tempo, fin troppe derive morali e dottrinali hanno oscurato e oscurano il volto della Sposa di Cristo! La professione ferma e umile della fede niceno-costantinopolitana, con la consapevolezza, soprattutto per noi ministri, della sua gravità e del cammino che la Chiesa ha compiuto nei primi secoli per giungervi, diviene condizione perché il dono dell’indulgenza sia ottenuto. Come a dire che non si può separare l’ortodossia dall’ortoprassi, né a favore dell’ortodossia, come talvolta può accadere, né tanto meno a favore di una presunta ortoprassi, come se un determinato modo di agire per il cristiano potesse giustificare o “coprire” le mancanze o le deficienze di fede.

Questo secondo aspetto della questione pare oggi particolarmente rischioso, soprattutto in un contesto nel quale la grave secolarizzazione, nella quale siamo immersi, potrebbe spingerci a volere o dovere giustificare la nostra esistenza, come Chiesa e come pastori, in funzione di una presunta efficacia sociale del nostro esistere e del nostro agire.

Non è così!
Noi siamo sacerdoti per dare al mondo la Vita eterna!
La Chiesa esiste per annunciare agli uomini la salvezza in Gesù Cristo e per donarla loro attraverso la celebrazione dei sacramenti. Tutto il resto, pur bello e certamente doveroso, è una conseguenza, una estensione del Regno di Dio che, dalla fede, scaturisce.

La professione del Credo, implicitamente o esplicitamente, inserisce il cammino verso l’indulgenza nella bimillenaria fede della Chiesa, mettendo al riparo il fedele dalle possibili deviazioni o dai continui indebolimenti a cui l’autentica professione di fede sempre può essere soggetta.

La preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice, infine, ricorda un duplice aspetto. Il primo rimanda all’autorità di Pietro, che solo ha il potere di attingere copiosamente al tesoro della divina Misericordia, elargendo ai fedeli, che egli conferma nella fede, il dono delle indulgenze.

Il secondo aspetto, che forse potremmo definire “dal basso”, riguarda l’animo del singolo fedele penitente, che cerca l’indulgenza: esso è chiamato ad aprirsi al dono della comunione gerarchica, sapendo che nella Chiesa vi è un ordine, stabilito da Cristo stesso, che nessuno potrà mai cambiare; che il potere stesso della Chiesa è limitato a ciò che Cristo le ha affidato e le ha detto, ed essa mai potrà andare contro la Parola del suo Signore: potrà approfondirla, potrà comprenderne più chiaramente le ragioni e le prospettive, potrà interpretarla in hodiernis adiunctis, ma mai la Chiesa potrà andare contro ciò che Cristo esplicitamente le ha detto.

In tal senso, la preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre è un atto di fiducia chiesto ai fedeli verso il successore di Pietro, la cui intenzione, del resto, non può essere altra dalla diffusione del Vangelo, dall’unità della Chiesa e dalla salvezza eterna delle anime.

Potremmo dire, in maniera sintetica, che di fatto esiste un’unica condizione per ricevere l’indulgenza plenaria, riconoscibile nella comunione: nella comunione sacramentale, attraverso la Penitenza e l’Eucaristia; nella comunione dell’unica fede, attraverso il Credo; nella comunione gerarchica, attraverso la preghiera per la persona e secondo le intenzioni del Romano Pontefice.

A questo punto, potrebbe apparire che l’ottenimento delle indulgenze sia più il vertice di un impegnativo cammino di ascesi, che non il dono gratuito discendente della divina Misericordia. Ma non è così.

Semplicemente la Bontà tenera di Dio, che gratuitamente tutto dona, domanda e rispetta il timido sì dell’uomo, la timida accoglienza della nostra libertà ferita, ma pur sempre capace di spalancarsi all’orizzonte infinito dell’Amore, che si è reso visibile in Gesù Cristo, fatto carne nel grembo della Beata Vergine Maria.

A Lei affidiamo, allora, questo XXXIII Corso sul foro interno, perché ci spalanchi al dono della divina Misericordia e sia rinnovo della chiamata al dono sublime ed unico della santità.

Mauro Card. Piacenza