Viviamo in un tempo in cui la fede si misura più per esclusione che per accoglienza. Non si chiede più se una persona ami, ma se “sta dalla parte giusta”. È un meccanismo sottile, quasi impercettibile: nasce come zelo per la dottrina e finisce per diventare idolatria della purezza. Il giudizio, dentro e fuori la Chiesa, ha assunto le sembianze della virtù. Eppure, il Vangelo non comincia dal giudizio: comincia da un abbraccio. Il cristianesimo nasce da un Dio che non si è scandalizzato della nostra miseria, ma l’ha presa su di sé.
Tutto il resto — le norme, i precetti, i confini — è solo la grammatica della relazione, non la sua sostanza. Quando si dimentica questo, la fede diventa una legge senz’anima, e la Chiesa si trasforma in un tribunale morale dove tutti sono imputati e nessuno è assolto.
Il peccato dell’“ungrace”
C’è una parola che non esiste in italiano ma che descrive bene il male del nostro tempo: ungrace, la mancanza di grazia. È la logica per cui tutto si deve meritare: l’amore, la fiducia, persino il perdono. È la mentalità che divide il mondo in vincenti e perdenti, giusti e peccatori, dentro e fuori. È il linguaggio che scorre silenzioso nelle nostre parrocchie, nelle discussioni sui social, nei consigli pastorali, dove ci si sente più al sicuro giudicando che comprendendo. Ma l’uomo che giudica non è mai libero. È prigioniero della propria paura: paura di non essere all’altezza, di perdere il controllo, di essere smascherato. Il giudizio diventa allora una corazza, un modo per dire a sé stessi: “Io sono diverso”. Eppure, nessuno lo è davvero.
La Chiesa che ha perso la grazia
Ci sono comunità dove la grazia non circola più come respiro, soffocata da parole d’ordine come “prescrizioni”, “ordine”, “liturgia”. Si parla di dottrina, ma spesso si dimentica la misericordia.
Ci indigniamo quando un prete — o anche un semplice credente — osa dire apertamente ciò che molti pensano, solo perché rompe il gioco delle apparenze e ci costringe a guardarci dentro. Preferiamo un cristianesimo fatto di regole che imprigionano, di moralismi che non riusciamo noi stessi a mantenere. Atteggiamento che ricorda molto quello dei dottori della legge ai quali Gesù disse: «Guai anche a voi che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!»
E così, nelle nostre comunità, chi vive un disagio o semplicemente esprime la propria originalità diventa facile bersaglio: non un fratello da apprezzare, ma un caso da correggere se non insultare. Si scrutano le vite altrui con il righello della moralità, dimenticando che la verità senza carità non salva: uccide. Non basta celebrare i sacramenti, se non si è capaci di essere sacramento — cioè segno vivo — di un Dio che perdona. Una Chiesa che giudica, smette di essere madre e diventa funzionaria del divino. Gestisce regole, ma non genera vita. E allora la gente si allontana. Non per mancanza di fede, ma per fame di grazia. Perché in fondo ognuno di noi, anche chi sembra più distante, cerca un luogo dove poter essere guardato senza paura.
Il ritorno alla gratuità
C’è un passo silenzioso che ognuno è chiamato a compiere: quello del disarmo. Rinunciare a dire chi ha ragione e chi ha torto, per tornare a guardare l’altro come fratello. La grazia non è un premio per i buoni, è un respiro dato ai vivi. È ciò che resta quando tutte le sentenze sono state pronunciate e nessuna basta. Non si tratta di giustificare tutto, ma di comprendere che il giudizio senza contestualizzazione e compassione non è cristiano: è solo vendetta travestita da ordine. Solo chi è stato perdonato può smettere di giudicare. E solo chi ha fatto esperienza della propria miseria può diventare realmente capace di amore.
Un cristianesimo senza grazia non converte
Si può essere ortodossi e disumani, impeccabili e aridi, perfetti e lontani da Dio. La vera rivoluzione del Vangelo è una: la grazia è immeritata. Dio non ama perché siamo buoni; siamo buoni perché Dio ci ama. E se la Chiesa dimentica questo, diventa una macchina di giudizi che produce solo solitudine.
La grazia è l’unica forza capace di interrompere il ciclo del male. Non è debolezza, ma libertà: la libertà di chi, invece di accusare, tende la mano; di chi, al posto di dire “colpevole”, sussurra “anch’io”. Forse la cartina tornasole della fede non è quanto giudichiamo il mondo, ma quanto sappiamo amarlo nonostante tutto. Solo così - nella misericordia che non pesa, che non calcola, che non pretende - potremo dire di aver davvero compreso qualcosa del Vangelo.
F.T.
Silere non possum