Pavia - La recente decisione di far uscire i monaci cistercensi dalla Certosa di Pavia segna la fine di un’epoca: presenza stabile dal 1968, ora con il trasferimento previsto all’Abbazia di Casamari e la gestione del sito affidata al Ministero della Cultura da gennaio 2026.

Le origini: i certosini alla Certosa

La Certosa di Pavia, conosciuta anche come Monastero di Santa Maria delle Grazie, venne fondata alla fine del XIV secolo per volontà di Gian Galeazzo Visconti, che la volle come mausoleo della propria dinastia e come compimento di un voto fatto dalla moglie, Caterina Visconti. La posa della prima pietra risale al 1396.

Il monastero fu affidato all’Ordine certosino: monaci contemplativi, rigorosi nella vita di clausura, dediti al silenzio e alla preghiera. Si tratta, senza dubbio, dell’ordine monastico più bello che la Chiesa abbia conosciuto, la forma di vita più gradita a Dio. Il loro vivere è interamente rivolto al Signore, secondo la regola di san Bruno di Colonia. Diversamente da molti altri ordini religiosi, i certosini non hanno subito grandi trasformazioni in seguito alle varie riforme che la Chiesa ha vissuto. A parte qualche priore poco accorto, la loro vita è rimasta sempre fedele allo spirito originario di san Bruno, custodendo intatta l’essenza della propria vocazione.

“Mandati via” i certosini: soppressione del 1782

Nel 1782 l’imperatore Giuseppe II soppresse il monastero certosino. I motivi includevano ragioni politiche, economiche e la pressione illuminista sulle istituzioni religiose contemplative. Questo allontanamento, del tutto ingiusto, fu imposto da autorità laiche, determinate a ridimensionare la ricchezza e l’influenza del monachesimo contemplativo. I beni del monastero vennero infatti incamerati.

Dopo i certosini: i cistercensi e altri ordini

Dopo la soppressione dei certosini nel 1782, nel 1784 fu istituito il Monastero cistercense di Santa Maria delle Grazie, che durò fino al 1798. Nel frattempo, passò anche ai carmelitani nel 1798, poi chiuso, poi riaperto, etc.

Solo nel 1968, dopo il Concilio Vaticano II, la Certosa viene riaffidata ai monaci cistercensi della congregazione Casamariensis, provenienti dall’Abbazia di Casamari. Da allora per quasi 60 anni quella comunità cistercense ha vissuto nella Certosa, contribuendo non solo alla cura spirituale del luogo ma anche alla gestione del sito, al rapporto con i visitatori, alla vita monastica come presenza religiosa e culturale.

La decisione attuale: uscita dei cistercensi, gestione statale

La Congregazione Casamariensis ha deciso che i monaci cistercensi lasceranno la Certosa. Dal 1° gennaio 2026 il Complesso monumentale sarà gestito dal Ministero della Cultura, tramite la Direzione regionale Musei nazionali della Lombardia.

I monaci ancora presenti saranno trasferiti all’Abbazia di Casamari (Frosinone). Tra le ragioni espresse ci sono la scarsità di vocazioni, l’età degli ultimi monaci, la difficoltà di mantenere una comunità monastica stabile in un sito monumentale molto impegnativo.

Il contesto più ampio: il generalato di Mauro Giuseppe Lepori

Mauro-Giuseppe Lepori è Abate Generale dell’Ordine Cistercense, eletto per la prima volta nel 2010 e riconfermato nel 2022 con un margine risicatissimo: un solo voto in più rispetto al suo confratello. Come Silere non possum ha già documentato, sotto il suo governo si sono moltiplicate le decisioni che hanno portato alla chiusura o al “trasferimento” di comunità monastiche: monasteri sempre meno numerosi, comunità sempre più anziane, presenze dismesse perché ritenute non sostenibili. Lepori ha affermato di non voler “chiudere monasteri”, ma piuttosto di “accompagnarli nella morte”.

La domanda, inevitabile, è questa: Lepori agisce davvero per il bene della Congregazione o mira piuttosto a interessi economici derivanti da tali decisioni? Perché, se il problema fossero unicamente le vocazioni, non si limiterebbe a organizzare convegni sterili, passerelle al Meeting di Rimini o viaggi di piacere, ma promuoverebbe una seria pastorale vocazionale all’interno dell’Ordine. E ancora: come mai proprio quelle comunità che le vocazioni le avevano, sono state portate alla chiusura sulla base di accuse mai dimostrate? In realtà, Lepori sembra nutrire una vera inclinazione a sopprimere comunità, specialmente quelle che non rientrano nelle sue simpatie. Talvolta è una questione di tornaconto economico – meno spese da sostenere, o proprietà incamerate perché appartenenti alla comunità stessa – altre volte prevale un odio ideologico. Gli esempi non mancano, come già riportato da Silere non possum: Heiligenkreuz, dove si è ricorso a diffamazione e delazione in assenza di alternative; San Giacomo di Veglia, dove Lepori ha spinto via le monache che gestivano il monastero, conservando solo quelle ormai vicine alla fine della vita – una di loro è morta proprio pochi giorni fa –; e ancora l’abbazia ungherese di Zirc. Una lista alla quale se ne potrebbero aggiungere molte altre.

Restano aperti alcuni interrogativi.

Che cosa rimane a una città e a una diocesi quando una comunità monastica chiude le proprie porte in un luogo come la Certosa? Non tanto come attrazione turistica, ma come segno e presenza spirituale.
Dove passa il confine tra la necessità – dettata dal “calo delle vocazioni” (sic!) – e la responsabilità di chi guida l’Ordine nel custodire anche le comunità più piccole e fragili?
E, soprattutto, come Chiesa siamo davvero convinti che la gestione statale sappia garantire quella dimensione spirituale e religiosa che la vita monastica incarnava? O la Certosa rischia di ridursi a un monumento come tanti altri, prezioso ma muto, privo della vita che lo animava?

p.L.T.
Silere non possum