The Society of Jesus: a carefree decline.
La situazione in cui versa la Compagnia di Gesù, almeno in Europa, non deve per nulla rallegrare i cattolici; ogni ordine religioso che non vive il suo carisma arreca una ferita alla Chiesa, oltre che un impoverimento. I carismi sono donati dallo Spirito proprio per le necessità del popolo di Dio, e ogni volta che essi vengono snaturati i credenti, specie i piccoli, vengono defraudati di qualcosa. La fedeltà al carisma è per un ordine religioso non è solo una questione di autenticità personale e collettiva, bensì una responsabilità ecclesiale. Con affetto per i gesuiti che abbiamo avuto l’onore di incontrare – e per il grande dono degli Esercizi che ci hanno fatto – stendiamo queste note nella speranza che se ne possa riflettere pacificamente. Sì perdonerà quel po’ di ironia che non guasta mai.
La Compagnia di Gesù – solo un cieco può nasconderselo – versa in una condizione miserevole (come altri istituti religiosi), almeno in Europa. Le vocazioni pochissime, le defezioni sproporzionate. Sono gli stessi gesuiti a dirselo tra loro, quando gli altri non ascoltano. Tra l’altro, più salgono in alto nella gerarchia ecclesiastica più mostrano le carenze della compagine da cui provengono! Ma non basta lamentarsi, bisogna stimolare un tentativo di analisi sincera. Qualche provocazione.
Un pensiero teologico incompleto
La teologia dei grandi teologi gesuiti del secolo scorso ha fatto sicuramente la storia e ha preparato ed accompagnato la riflessione del Vaticano II. Le fonti della teologia sono: la Scrittura, la Liturgia e la Dottrina dei Padri e Dottori della Chiesa, che insieme al Magistero formano la Tradizione vivente. Il tutto reso comprensibile alla luce dei segni dei tempi. Questo è il metodo teologico cattolico. Sant’Ignazio fondò la compagnia per la difesa e la propagazione della fede. La Formula dell’Istituto approvata da Giulio III lo dichiara solennemente. Il ‘modo di procedere’ in teologia della Compagnia si è sempre rifatto ad un metodo di ispirazione tomista, anche in altri ambiti del sapere (si pensi a Lonergan, o alla elaborazione della cosiddetta ‘psicologia del profondo’).
Cosa è successo? Che oggi, per lo più, in Compagnia, i segni dei tempi (assunti in senso hegeliano naturalmente, e non biblico) sono diventati la prima fonte della loro teologia; il principio ermeneutico con cui si setaccia perfino la Bibbia, per cui ciò che risponde ai segni dei tempi si tiene, ciò che non risponde si elimina. Lo sforzo intellettuale di comprendere la serietà del dogma è per i gesuiti un’impresa non interessante. La Tradizione non è più normativa, il paradosso cristiano declassato a pietra d’inciampo da rimuovere (Rahner è stato un maestro nel ridurre il cristianesimo a ciò che solo si può spiegare… in barba al grande K. Barth). Ma la domanda – alla quale non sanno rispondere – è: con quali strumenti si discernono i segni dei tempi? Chi decide che un evento, un pensiero, e quant’altro è un segno dei tempi oppure no? E chi ha l’autorità di operare questo discernimento in nome del popolo di Dio? Silenzio totale….
Un senso di colpa collettivo
La Compagnia di Gesù che vediamo oggi non è esattamente l’ordine fondato da Ignazio, ma un tentativo discutibile di ripristinare il carisma originario. Soppressi nel 1773 con il breve Dominus ac Redemptor da Papa Clemente XIV, i membri vennero dispersi. Sopravvissero nella Russia Bianca di Caterina la Grande che li chiamò a dirigere le scuole. Ma questi membri superstiti non riuscirono nel 1814 – quando l’ordine fu ‘restaurato’ – a trasmettere la ricchezza della tradizione precedente. L’anello mancante della trasmissione viva del carisma si fa oggi ancora sentire. I gesuiti rinacquero ma senza radici solide, senza anziani provati a guidarli. Il Preposito Generale Jan Roothaan fece molto per riconsegnare all’ordine lo spirito originario, sia dottrinale che pastorale. Ma i gesuiti rimasero comunque degli orfani, dei ‘personaggi in cerca d’autore’. E così si buttarono a capofitto nella difesa della struttura ecclesiastica papale, nella difesa dello Stato Pontificio, nella condanna cieca di ogni filosofia dissonante con l’impianto tomistico: il caso della condanna di Rosmini ne rende ragione. Con l’Unità d’Italia gli orfani di Pio IX cercarono di ridarsi un nuovo tono, cercando nuove battaglie da fare. Gli orfani divennero, dunque, adolescenti: e così arrivò il tempo di negare tutto. Crisi da sviluppo! La XXXII Congregazione Generale del 1974-75 svoltò verso la giustizia sociale, i rifugiati, il dialogo con l’ateismo raccomandato da San Paolo VI (e totalmente fallito!), l’opzione preferenziale per i poveri…. Dall’estrema destra – per così dire – alla sinistra. Che cosa li guidò in questa operazione di trasformismo? Non certo l’equilibrio ignaziano, ma il senso di colpa per essere stati i cani da guardia dell’ortodossia cattolica più intransigente durante il secolo XIX. Bisognava ripulirsi la coscienza collettiva dalla legenda nera (operazione ancora maldestramente in corso). Oggi molti dicono che la Compagnia sia “progressista” in campo sociale e teologico. Non è corretto: i gesuiti sono solo semplicemente trasformisti!
Un sentire con la Chiesa assente
La ‘nuova’ Compagnia ci tiene tantissimo a ‘non sentire con la Chiesa’! I gesuiti pensano di essere avanti: lo credono loro, da soli, ma nessuno gli ha dato questa patente in tempi recenti. Lo spirito del quarto voto (obbedienza al Papa per la missione) è diventato una medaglietta di latta. Quando danno gli esercizi le “Regole per sentire con la Chiesa” non sono mai offerte; loro dicono che Ignazio le scrisse per sfuggire all’Inquisizione e che quindi sono condizionate dal contesto storico. In realtà la devozione alla Chiesa gerarchia fu un tratto distintivo della biografia del Basco. Ma, anche qui, l’ermeneutica del fondatore è soggetta ai segni dei tempi! I gesuiti generalmente commettono una svista notevole: confondono la profezia con l’originalità! Come gli adolescenti si credono grandi solo perché si ribellano ai genitori. Il loro magis non è più individuato nel servizio alla Chiesa, bensì nell’essere diversi a tutti i costi, a servizio di una Chiesa del futuro che pensano di intravedere.
Il caso Rupnik
La lontananza dal popolo di Dio
Uno dei motivi molto concreti della deriva strutturale della Compagnia è la pressoché totale perdita del contatto quotidiano col popolo di Dio. Quando fu eletto Bergoglio al soglio di Pietro, un amico gesuita ci disse: “non rappresenta l’eccellenza della Compagnia, perché troppo popolare, spiega ancora il catechismo alla gente”. Giusto per ricordare… In Italia si sono ridotti a pochissime parrocchie (che gestiscono ignorando la partecipazione alla vita della riscoperta Chiesa locale, quest’ultima sì un segno dei tempi che però non vogliono accettare); le loro scuole – in cui figurano nell’organico con presenze irrisorie e che sono in mano a fondazioni di esperti laici – costano tanto, tanto, tanto… e certo non sono frequentate dal popolo. Non sono più presenti nei seminari, tranne che a Posillipo. Uno degli impegni dei gesuiti professi di quarto voto era quello di impegnarsi nel catechizzare i fanciulli (San Francesco Saverio lo faceva a Campo de’ Fiori), ma un gesuita di oggi non saprebbe fare nemmeno il catechismo della prima comunione. Loro – dicono – formano le elite (solitamente progressiste) …. Fa chic frequentare i gesuiti: si imparano tante cose belle sul «sociale da salotto». Molte di meno sulla fede. Alla ‘sinistra bene’ – alla pariolina, o alla San Babila – piacciono tanto. Un professore laico di una scuola italiana della Compagnia ci raccontava che ha pregato in ginocchio i Padri dell’istituto per intraprendere qualche iniziativa di pastorale scolastica: niente da fare. E pensare che il contatto con la gente è stato assicurato per secoli nella Compagnia dai sacerdoti cooperatori spirituali (cioè senza quarto voto, e quindi non eleggibili come superiori) che hanno offerto la vita nelle missioni popolari e nel confessionale. Si pensi al grande San Giovanni Francesco Régis. Ma oggi tutti, Spadaro in primis, sperano di diventare ‘membri professi’ (che però nella mente di Ignazio dovevano essere pochissimi), nello spirito – ovviamente – dei tre gradi dell’umiltà!!!
Autoreferenzialità esasperante.
La Compagnia in Europa sta morendo di asfissia. In che senso? Siccome i gesuiti dicono – ancora oggi – di essere l’eccellenza non hanno bisogno di imparare da nessuno. “Non ci sono preti più preparati dei gesuiti”, disse qualche anno fa un gesuita ad un gruppo di seminaristi. L’adolescenza è così: il selfie narcisistico è inevitabile. Altro che ‘minima’ Compagnia, come la voleva Ignazio! I gesuiti anche qui confondono l’eccellenza con il conformismo. Questa autoreferenzialità non consente loro di aprirsi e confrontarsi con altre esperienze di vita religiosa. Non chiedono mai consiglio ad altri, loro di consigli ne danno solamente. Ma chi si ‘accoppia’ tra parenti stretti – anche intellettualmente – prima o poi mette al mondo figli con patologie congenite. I gesuiti non dialogano, dirigono il dialogo. Tendono a perpetuarsi, avvitati su loro stessi come sono. Nel noviziato di Genova – anche se sei serio, colto e motivato nella fede – puoi essere spedito a casa semplicemente se non riconoscono in te un certo ‘spirito’. Un gesuita, scherzando, ci raccontava che se un giovane vuole entrare in Compagnia deve aver partecipato almeno tre volte a qualche manifestazione di piazza trendy o frendly (leggi: ‘battaglie facili’!!!). Una piccola nota che non tutti conoscono: ai gesuiti è vietato parlare con esterni dei problemi interni alla Compagnia. Come più volte evidenziato da Padre Dysmas De Lassus, questo è una delle derive della vita religiosa. Nel tempo questo principio si è trasformato in attitudine a coprire gli abusi da loro perpetuati: la Bolivia ne è un caso macroscopico, con otto superiori provinciali sospesi per copertura di abusi (e la polizia che ha sequestrato l’archivio della curia provinciale per indagini).
Hans Zollner
Individualismo narcisista
Il defunto Preposito Generale Padre Adolfo Nicolás diceva che i suoi religiosi erano come animali esotici e rari, chiusi dentro lo stesso zoo ma ognuno appollaiato ben bene nella sua gabbia. I gesuiti tra loro non si amano, al più hanno qualche amicizia elettiva. Tutto lecito ovviamente. Ma chi ha lavorato con loro conosce bene il clima, soprattutto nei grandi centri del loro apostolato. La competizione è all’ultimo sangue. Forse perché revisioni di vita comunitarie in Compagnia non se ne fanno: ciascuno nell’apertura di coscienza annuale riferisce al superiore eventuali scontentezze riguardo agli altri, e poi il superiore si regola. In altre parole: ci si parla dietro con la benedizione di Dio. Questa forma di pudore non favorisce certamente un clima trasparente. Ora bisogna anche dire una cosa: le forme di riservatezza orizzontale con i confratelli e di apertura verticale con i superiori – prevista dallo stesso Ignazio nelle Costituzioni – funzionavano sì, ma solo in un contesto di disciplina e di abnegazione. La retta intenzione e il rinnegamento di sé facevano in modo che le ruote girassero ben oleate. Ma queste attitudini oggi non si possono più pretendere. Vi è che ogni gesuita si sente un piccolo genio, abituato com’è ad autosuggestionarsi con il mito dell’eccellenza della Compagnia e del suo ruolo di compagine profetica posta all’interno della Chiesa. Le comunità – o meglio ‘residenze’ - della Compagnia sono poco più che alberghi. E così abbiamo una sfilza di personaggi ‘mine vaganti’ in cerca di scoop: esperti di abusi come Hans Zollner, artisti manipolatori come Marko Rupnik, direttori di riviste (in via di chiusura) e conferenzieri à la page la cui unica originalità consiste nel ridicolizzare il Magistero (Antonio Spadaro).
Un deficit di autorità
La Compagnia si fonda sull’obbedienza alle mozioni delle Spirito sottoposte al giudizio dei superiori. Tutto funziona finché questi ultimi sono ben preparati. Ed è qui il segreto più pregnante della decadenza dei gesuiti: religiosi in grado di discernere l’ispirata elezione dei singoli membri non ne hanno più. A forza di giocare a fare i profeti, quando gli viene chiesto di fare i ‘pastori’ dei confratelli si trovano spaesati. I superiori della Compagnia mostrano molto bene come i gesuiti siano dei religiosi mediocri come tutti noi. Il re è nudo. Sintomo inequivocabile di questa carenza di autorità è la gestione degli abusi: i gesuiti battitori liberi non hanno nessuna voglia di stare sotto l’obbedienza. Ricevono una missione (una ‘miss’ come dicono fra loro) e dopo un po’ ne fanno una roccaforte personale intronizzandovi dentro il personaggio che si sono creati. Tutti vedono, ma si lascia fare. Poi però, quando questi religiosi combinano guai o commettono abusi, i superiori giocano a fare i sorpresi, gli scandalizzati. La lista è lunga, troppo lunga, per chi gioca a spacciarsi come l’elite della Chiesa: Padre Pica in Bolivia, Renato Poblete e Felipe Berríos in Cile. Se poi sono vere le dichiarazioni recenti di un noto attore e regista italiano circa gli abusi subiti dai gesuiti dell’Istituto Leone XIII di Milano, allora siamo a cavallo… E poi c’è Padre Rupnik in attesa di ulteriore giudizio dopo la prescrizione e la remissione della scomunica (e che ha il terrore che la Compagnia non lo espella per poterlo poi controllare e limitare); anche un gesuita di Barcellona è in attesa di sentenza con l’accusa di abusi su alunni di una scuola dell’ordine nel 2005...
Quando, la Chiesa – custode e responsabile del carisma della Compagnia – prenderà in mano la situazione? O dobbiamo vivere ad oltranza nella nostalgia di gesuiti come padre Peter Hans Kolvenbach, Bartolomeo Sorge, Herbert Alfonso, Giacomo Martina, Giandomenico Mucci, Robert Taft?
Per ora rimane vero solo il maccheronico: si cum jesuitis, sine Jesu itis! Se andate con i gesuiti, andate senza Gesù!
P.P.
Silere non possum