Nelle scorse ore Agenzia Fides ha pubblicato il documento “Statistiche della Chiesa Cattolica 2025”. I numeri, ancora una volta, raccontano un panorama desolante: le vocazioni continuano a diminuire. Ma c’è un non detto che nessuna statistica osa affrontare: il problema non è nei giovani, ma nei luoghi dove la vocazione dovrebbe nascere e crescere.
Lo conferma un arcivescovo che da decenni si dedica all’accompagnamento vocazionale, visitando seminari, ascoltando formatori e preti di tutto il mondo. In questi giorni – ci racconta – è proprio impegnato in una serie di visite a diverse realtà seminariali, a Roma e in varie parti d’Europa. La sua analisi è lucida e spiazzante: “La crisi delle vocazioni non nasce dall’assenza di giovani disposti a donarsi, ma dal clima malato che domina i luoghi dove la vocazione dovrebbe maturare.”
I seminari – almeno in molti casi – non sono più luoghi di discernimento, ma di selezione. E la selezione, oggi, non è orientata alla libertà e alla maturità, ma alla docilità e alla dipendenza. Si accolgono giovani fragili, confusi, spesso psicologicamente instabili, come se l’istituzione avesse bisogno di pazienti più che di discepoli. Anzi, sembra quasi che si cerchino soggetti “da guarire”, per poterli poi “salvare” e controllare.
Il culto del fragile
Negli ultimi anni, i seminari hanno smesso di attrarre persone equilibrate, creative, intellettualmente vive. Non perché queste non esistano, ma perché – di fronte a un sistema che teme la libertà – la maturità diventa un difetto. Così, molti rettori e formatori finiscono per accogliere soltanto chi presenta “disagi evidenti”, chi ha bisogno di una guida costante, chi è pronto a “essere modellato” secondo parametri uniformi.
L’idea implicita è che un soggetto più fragile sarà anche più fedele, più obbediente, meno incline a porsi domande o mettere in discussione l’autorità. È un’illusione pedagogica che sconfina nella patologia ecclesiale: non si forma più l’uomo, ma si fabbrica il dipendente. E anche l’estetica entra in questo gioco perverso. Si tende a privilegiare candidati dimessi o poco curati, nella convinzione che “daranno meno problemi”, che “non attireranno attenzioni”, quasi che l’assenza di attrattiva esteriore possa garantire un cammino “più sicuro”, priva di rischi. Dietro questa mentalità si nasconde una paura antica e una distorsione sottile: quella di chi teme che, se un giorno il sacerdote dovesse cadere, la sua caduta risulterebbe tanto più scandalosa quanto più egli era capace di suscitare simpatia, fascino o stima.
Al contrario, se un giovane è bello, curato, intelligente, se sa parlare, scrivere, relazionarsi e magari ha anche un certo seguito sui social, il sospetto sorge spontaneo: piacerà troppo. Se sceglierà di entrare in seminario il suo cammino si farà inevitabilmente tortuoso. Dalle attenzioni non richieste alle gelosie e invidie, fino ai sospetti e alle accuse di coltivare “amicizie particolari” con confratelli o con amici esterni alla comunità seminariale.
Dietro a tutte queste dinamiche si cela un criterio tutt’altro che evangelico, ma profondamente umano: il potere predilige ciò che può controllare e diffida di ciò che possiede luce propria.
La fuga dei liberi
Il presule commenta: «Domandiamoci come mai molti dei presbiteri che costituiscono un vero problema nelle nostre comunità – quelli che alimentano maldicenze, spaccature, tensioni continue all’interno del presbiterio - presentano spesso anche un evidente disordine esteriore e personale. Sono sovrappeso, oggettivamente problematici e spesso soffrono proprio di questa loro condizione. A questi sacerdoti nessuno osa dire nulla, pur essendo il vero dramma di diocesi ormai allo stremo, dove il clima è divenuto irrespirabile: non solo i giovani non vogliono più entrare in seminario, ma persino chi è già dentro cerca di cambiare diocesi, mentre i vescovi stessi non sanno più come governare realtà simili. Non di rado, sono proprio questi soggetti a rivolgere attenzioni inopportune ai seminaristi o ai confratelli e, una volta respinti, reagiscono con calunnie e insinuazioni, attribuendo agli altri ciò che in realtà caratterizza il loro stesso modo di agire. E, paradossalmente, sono spesso gli stessi che amano coprirsi di paramenti e abiti, come per nascondere, dietro una forma, il vuoto della sostanza»
È per questo che molti giovani realmente chiamati, uomini risolti, con una vita affettiva integra, con passioni, amicizie, interessi, scelgono di non entrare in seminario o lo lasciano se vi sono entrati. Chi è capace di pensiero critico, chi ha gusti culturali, chi coltiva l’arte o lo sport, chi ha relazioni sane fuori dall’ambiente ecclesiale, non trova nel seminario un luogo attraente ed utile, ma una gabbia piena di serpi.
Là dove ci si aspetterebbe un cammino di libertà, si scopre invece un clima di sospetto, dove la spontaneità è letta come disobbedienza, la libertà come ribellione, la maturità come pericolo. Molti sacerdoti, oggi, arrivano a consigliare ai giovani che manifestano il desiderio di accedere al seminario di stare lontani dai seminari, perché “ne uscirebbero peggiori di come vi sono entrati”.
Il dato numerico sulle vocazioni, quindi, è falsato: non è vero che mancano le vocazioni, manca la fiducia nei luoghi che dovrebbero accoglierle e in coloro che la gerarchia pone come “guardiani” piuttosto che “formatori”.
Sopravvivere o essere vivi
Chi resiste in un contesto simile lo fa per amore autentico al Signore e alla sua Chiesa, ma quasi sempre a costo della propria libertà. Ci sono poi sacerdoti che non tollerano più l’ipocrisia diffusa, ma non intravedono alternative concrete, e proprio su questa loro impotenza la gerarchia fa leva, esercitando forme sottili di abuso di potere. Così, i seminari finiscono per formare – o piuttosto deformare – uomini privati di autonomia, incapaci di scegliere e di vivere senza dipendere da chi li domina.
Alla fine, anche nei seminari – dove pure non mancano vescovi e rettori impegnati in battaglie ideologiche di ogni segno – chi è che sopravvive davvero? Solitamente, chi restringe i propri interessi agli altari, ai paramenti, all’ossessione per l’organo da suonare a ogni ora, e poco più. I formatori, di fronte a questo, si trincerano dietro un ragionamento tanto sottile quanto ipocrita: “In fondo, che male c’è? Non dà fastidio a nessuno”. Poi, però, quando questi vengono ordinati e li si vede alle celebrazioni eucaristiche indossare vesti che non avrebbero neppure diritto di portare, il commento del vescovo suona quasi rassegnato: “Ma sì, lascialo fare, fagli mettere la talare paonazza: almeno così è contento e non ci creerà altri problemi.”
Così, la talare paonazza diventa un modo per sublimare desideri ben più profondi, e il segno esteriore finisce per coprire, ancora una volta, un vuoto interiore che nessuna stoffa potrà mai nascondere. Meglio un prete chiuso nell’estetismo liturgico che uno libero, capace di parlare ai giovani, di frequentare i loro luoghi e di annunciare il Vangelo nella vita reale. È questo, in fondo, il messaggio implicito di certi comportamenti: come se la vita cristiana si esaurisse nella forma del culto e non nella sostanza viva della fede.
È anche per questo che diversi preti, oggi, appaiono culturalmente sterili, incapaci di interpretare la realtà politica e sociale, e profondamente smarriti non appena escono dai confini della sacrestia. Eppure, quando un sacerdote si prende cura della propria salute psicologica e fisica, pratica sport, coltiva amicizie sincere e nutre interessi che vanno oltre l’ambito ecclesiastico, vivendo la fede come un equilibrio tra spirito e corpo, diventa subito bersaglio di critiche, pettegolezzi e sospetti morali. La ragione è semplice: un uomo libero è pericoloso, perché non è manipolabile.
Il potere teme la libertà
Romano Guardini, in La fine dell’epoca moderna, scriveva che “l’uomo moderno ha paura della libertà, perché non sa più a Chi consegnarla”. È una frase che illumina perfettamente la situazione ecclesiale di oggi. Il problema non è solo morale o disciplinare, ma teologico: si è smarrito il senso evangelico della libertà come dono di Dio, come segno della maturità spirituale.
La Chiesa, invece di formare uomini liberi per Cristo, preferisce uomini sottomessi all’istituzione. E lo fa con mezzi sottili: la pressione psicologica, il ricatto economico, l’isolamento sociale.
La violenza economica nascosta
Nel dibattito pubblico, tanto nei talk televisivi quanto nelle aule di tribunale, si parla spesso della violenza economica esercitata da alcuni mariti sulle proprie mogli. Nessuno, però, sembra preoccuparsi di quella che alcuni vescovi – con i loro entourage – esercitano ai danni dei sacerdoti.
In non poche diocesi, vicari giudiziali e preti improvvisatisi psicologi mettono in atto vere e proprie forme di manipolazione, fondate sul ricatto economico. Frasi come: «Se non fai questo, non riceverai il sostentamento del clero»oppure «Puoi andare lì, ma la casa te la devi trovare da solo» diventano strumenti di pressione che costringono il sacerdote a obbedire, senza alcun criterio oggettivo né motivazione reale. Con un contributo di circa ottocento euro al mese, chi perde anche quello non ha mezzi per vivere, e chi detiene il potere lo sa bene. Perché, come accade in molti contesti, se sei nelle grazie del vescovo ti viene garantito il sostentamento con un incarico fittizio per giustificare la spesa, pur di truccare i conti; ma se osi dissentire o non esegui ciò che ti viene chiesto, puoi letteralmente morire di fame.
È una forma subdola di violenza, nella quale il superiore gioca proprio sulla mancanza di alternative del sacerdote: chi ha donato tutto, non possiede più nulla da difendere se non la propria dignità - ed è proprio quella che il sistema tenta di piegare. Garantirsi l’ordinazione di un giovane privo di una formazione professionale, senza titoli di studio che vadano fuori dal “baccalaureato in teologia” e senza legami al di fuori della struttura ecclesiastica, significa garantirsi una sottomissione pressoché assoluta e permanente. È anche per questo che, non di rado, si ritrovano coloro che sono stati allontanati dai seminari o hanno lasciato il ministero, a rientrare dalla finestra come insegnanti di religione, semplicemente perché non hanno altre alternative.
È questo il clima che porta la gerarchia a ricondurre rapidamente all’ordine o ridurre al silenzio coloro che osano discostarsi dalla linea tracciata. Chi tenta di uscire da questo schema paga quasi sempre un prezzo: se è seminarista, viene allontanato o gli si fa intendere che la sua presenza “così com’è” non va bene e che deve imparare a essere “più docile”; se è già sacerdote, viene trasferito, isolato, privato dell’incarico e, in molti casi, lasciato senza mezzi di sostentamento.
La libertà come scandalo
Alla fine, ciò che spaventa la gerarchia non è la disobbedienza, ma la libertà. Un sacerdote libero, capace di pensiero, di affetto, di relazione, diventa uno specchio troppo vero per un sistema che preferisce la mediocrità. Eppure, la storia della Chiesa mostra che proprio gli uomini liberi, non proprio i sottomessi, hanno custodito la fede nei momenti più bui: i profeti, i santi, gli spiriti inquieti.
Chi osa essere sé stesso davanti a Dio diventa per forza una minaccia per chi vuole conservare il potere sulla coscienza altrui. È per questo che ogni volta che un uomo di Chiesa mostra una forma di libertà, si cerca subito di togliergliela: con la calunnia, con la marginalizzazione, con il silenzio imposto.
Per una rinascita possibile
La crisi dei seminari, dunque, non è una crisi numerica, ma antropologica e spirituale. Finché la formazione continuerà a privilegiare la sottomissione alla verità, la dipendenza alla libertà, l’obbedienza cieca alla coscienza illuminata, nessuna riforma servirà. Servono luoghi dove l’intelligenza sia accolta, dove la maturità sia segno di vocazione e non di pericolo, dove la bellezza non sia sospetta e la libertà non sia punita. Perché - e questo è il cuore del Vangelo - Dio non chiama a essere schiavi, ma figli. E un figlio, per essere tale, deve poter dire “sì” con libertà, non per paura.
«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» Gv 8,32
d.L.A.
Silere non possum