Brescia - Nelle ultime ore, non è passato inosservato l’entusiasmo sincero e profondo che molti sacerdoti, vescovi e cardinali stanno esprimendo dopo l’elezione di Leone XIV. È un entusiasmo che si legge negli sguardi, si sente nelle parole, si respira nelle attività e nella vita quotidiana delle nostre comunità: dalle parrocchie ai centri diocesani, fino all’interno delle mura leonine. In ognuno, questo momento suscita emozioni diverse, cariche di umanità, di ferite, di speranze e fede.
Leone XIV è un uomo. Non è un salvatore né un taumaturgo, ma ciò che colpisce – e consola – è la sua piena consapevolezza di questo. La sua umiltà emerge dalle parole semplici ma dense di senso, capaci di far sentire ascoltati e accolti. Dai suoi gesti, semplici e delicati. È proprio questa umanità che oggi accende fiducia nel clero, il quale è stato per dodici anni percosso. Il cammino che ha davanti non sarà facile. Governare la Chiesa significa affrontare non solo problemi e tensioni, ma anche custodire una bellezza straordinaria, fatta di volti, storie, opere, fede. Tuttavia, sarebbe ingiusto – oltre che ingenuo – proiettare su di lui l’idea che possa risolvere tutto e subito. La complessità della Chiesa non si riduce con una nuova elezione di un Papa. Eppure, un fatto è evidente: fin dai primi gesti e parole, molti sacerdoti, vescovi, ma anche laici, si sono sentiti meno soli. Si percepisce una guida che non impone, ma accompagna. Leone XIV ama la Chiesa, ama Cristo, e desidera condurre noi tutti a Lui, con uno stile che parla di vicinanza, ascolto, paternità. Essendo un uomo, tuttavia, Leone XIV non può certo cancellare con un colpo di spugna ciò che è stato. Non può modificare le nomine episcopali già compiute, né riscrivere scelte del passato che in alcuni casi hanno lasciato ferite profonde. La storia della Chiesa recente è segnata da luci e ombre, e il nuovo Papa dovrà confrontarsi anche con quelle zone grigie che non si risolvono solo con il cambiamento del vertice. C’è molta speranza, all’interno delle sacre mura, per le nomine dei collaboratori, soprattutto alcuni che devono necessariamente fare le valige.
Un segno chiaro però emerge da questa elezione: il Signore non abbandona la sua Chiesa. Anche nei momenti di maggior disillusione, anche quando tutto sembra perduto, qualcosa di nuovo può germogliare. A volte da terreni duri, altre da ferite aperte.

Un presbiterio disorientato
Nelle ultime settimane – e ancor più nelle ultime ore – la Diocesi di Brescia è stata scossa da due gravi vicende: un sacerdote è stato accusato di molestie, un altro è coinvolto in un’inchiesta per possesso di materiale pedopornografico. Sono accuse che pesano, che toccano nel profondo le coscienze di chierici e fedeli e che, come sempre, vengono trattate dalla stampa con una preoccupante superficialità. Non è una novità: lo abbiamo già sottolineato in passato. Troppo spesso si dimentica che anche gli organi inquirenti possono commettere errori, e che il diritto alla presunzione di innocenza viene sacrificato sull’altare della notizia veloce e scandalistica. Il copione è noto: il processo mediatico anticipa quello giudiziario, e la crocifissione avviene prima ancora dell’accertamento dei fatti. Il fatto, poi, che le notizie vengano lanciate proprio da quei giornalisti o da quelle testate ai quali vengono rilasciate interviste da parte dei vescovi, dovrebbe forse farci porre alcune domande.
Ma non è su questo che oggi vogliamo soffermarci. È un terreno già battuto. Oggi desideriamo porre concentrarci su un altro aspetto, tenendo ben ferma – sia chiaro – la considerazione e il dolore condiviso con chi, qualora le accuse venissero confermate, potrebbe essere stato vittima di comportamenti gravi, inaccettabili e da condannare (gli atti, non le persone) senza esitazioni.
Fra il clero c’è sconcerto e disorientamento. Sempre più frequentemente, infatti, le decisioni appaiono calate dall’alto, senza un reale coinvolgimento o ascolto. I sacerdoti avvertono di non essere riconosciuti né ascoltati da chi dovrebbe essere guida, pastore attento e accogliente. Si moltiplicano i richiami alla sinodalità e a una Chiesa povera per i poveri, ma spesso resta la percezione che si tratti di parole vuote, perché in realtà molti vescovi non conoscono i propri preti, ignorano le loro storie, i loro talenti, le loro fatiche e speranze quotidiane.
Il rischio concreto è quello in cui cadono certi vicari episcopali che, tornati da Roma, si mettono a parlare di un Sinodo che non esiste, lanciando accuse di “diabolicità” contro chiunque osi ricordare che la Chiesa non si riduce a una ristretta élite chiusa nell’Aula Paolo VI. Chi osa raccontare al mondo che non tutto è stato fiaba e melodia, tra “sorrisoni e abbracci”, ma che c’è stato dissenso, che qualcuno ha avuto il coraggio di alzare gli scudi, viene bollato come nemico della comunione.
Il vero pericolo, oltre a quello di rendersi ridicoli, è che costoro finiscano per vivere in una bolla autoreferenziale, completamente scollegata dalle necessità concrete dei presbiteri e del popolo di Dio. Fedeli e preti non sono interessati a “circoli ideologici”, ma hanno fame e sete di Cristo, della sua Parola e di pastori sinceri, capaci di ascoltare e accompagnare, non di pontificare dall’alto di una retorica vuota.

Gli scandali: proteggere l’istituzione o piegarsi sulle ferite?
La Chiesa, di fronte a situazioni come queste, non può limitarsi a salire sul carro del vincitore, né rifugiarsi in una comoda neutralità istituzionale. Non può – e non deve – imitare Pilato, lavandosi le mani con comunicati che suonano come: “Non siamo coinvolti, siamo dalla parte delle vittime”. Essere “dalla parte delle vittime” è giusto, doveroso, ma non può diventare uno sloganfrettoloso per mettere distanza tra sé e la realtà. La Chiesa è madre, e una madre non si dissocia: accompagna, si fa carico, soffre, ascolta, corregge, guarisce. Non difende l’indifendibile, ma non abbandona nessuno al giudizio sommario. Perché sa che il Vangelo non si annuncia con i comunicati, ma con la verità, anche quando fa male.
Papa Francesco, visitando più volte i carcerati, ha pronunciato parole che dovrebbero scuotere profondamente ogni coscienza: “Ogni volta che vengo qui mi domando: ‘Perché loro e non io?’” Una frase semplice, eppure potente, che ci ricorda come tutti siamo peccatori, e che ciascuno di noi potrebbe, in determinate circostanze, cadere vittima di dinamiche che, a mente lucida e in contesti ideali, condanniamo senza esitazione. È proprio alla luce di questa consapevolezza che sorprende — e in certi casi amareggia — il modo in cui alcuni vescovi, vicari, addetti stampa e giornalisti “di fiducia” reagiscono quando esplodono situazioni di scandalo.
Scatta immediatamente il riflesso di mettersi alla scrivania per redigere il comunicato “più efficace” (il quale è tutt’altro che efficace!). Ma efficace per cosa? Per tutelare chi? La prima preoccupazione sembra essere quella di gestire l'immagine, non di cercare la verità. Eppure, nella comunicazione ecclesiale, verità e carità non sono alternative: dire la verità con carità significa non dover dire necessariamente tutto, ma significa sempre dire ciò che è giusto — e ciò che è giusto deve essere vero.
Giustizia spettacolo: ci sono complici
Tempo fa, Silere non possum aveva chiaramente denunciato come qualche “rana dalla bocca larga” si vantasse di aver ottenuto interviste esclusive. Gli stessi soggetti che avevano diffuso notizie su fatti mai formalmente denunciati, contribuendo ad avviare una crocifissione mediatica, si erano poi assicurati anche la “parola esclusiva” del vescovo. È evidente che qualcosa non torna, ma andiamo oltre.
Ci sono parrocchie in cui alcuni presbiteri si trovano costretti a subire situazioni inaccettabili e a gestire le conseguenze di scelte discutibili, spesso compiute da predecessori con evidenti “criticità”. Tuttavia, finché la stampa non solleva il caso, prevale la logica del “vabbè, andiamo avanti”, come se nulla fosse.
Quando il caso esplode, si corre ai ripari. Ma dove è l’attenzione alle necessità dei presbiteri? In alcune diocesi i vescovi non dialogano affatto con i loro sacerdoti. Si pensi, ad esempio, a un caso emblematico come quello di Bergamo. Grande attenzione è riservata ai laici – considerati “bravi” e “buoni” perché non pongono problemi al vescovo – e altrettanta attenzione, solo apparente, a fraternità sacerdotali imposte, che si rivelano spesso dannose. I preti, invece, restano esclusi dal confronto. Quando le difficoltà emergono, se va bene, tutto il peso finisce sulle spalle del vicario generale.
La Verità non si sacrifica
Non è tollerabile affermare, ad esempio, che “sono stati incontrati i genitori” se quell’incontro con il vescovo non è mai avvenuto. Non si può parlare di “nostra fiducia è stata tradita” quando si è di fronte a comportamenti che, se confermati, rientrano in dinamiche patologiche profonde. In quel caso, non si tratta di un tradimento della fiducia, ma — più tragicamente — di un fallimento nella prevenzione, nella diagnosi, nella cura. È profondamente scorretto, ingiusto e fuorviante attribuire a una scelta cosciente ciò che potrebbe invece essere il sintomo di una malattia. Fidarsi di una persona affetta da una patologia non è lo stesso che essere traditi da una persona libera e consapevole. È un’altra cosa. È un errore di valutazione clinica, pastorale e formativa.
Ed è proprio qui che riemerge un problema serio e mai risolto, che su queste pagine abbiamo già avuto modo di denunciare: l’assoluta confusione — o peggio, l’ignoranza — tra orientamento sessuale e parafilia. È fondamentale che i vescovi, così come gli “psicologi preti di riferimento” ai quali vengono affidati i sacerdoti in difficoltà, siano in grado di distinguere in modo chiaro tra le due cose.
Non si può continuare a pensare che basti ricordare a una persona che “alcuni atti sono contrari alla castità”. Non basta. Non serve. Non è vero. Di fronte a certe situazioni non siamo davanti a una debolezza morale da correggere con l’ammonimento spirituale, ma davanti a una patologia da curare con serietà, competenza e responsabilità. Se la Chiesa vuole davvero essere madre e non semplicemente istituzione, allora deve smettere di comunicare e agire come un ufficio stampa e deve cominciare ad agire come una comunità che si fa carico della verità, della giustizia e del dolore di tutti: delle vittime, ma anche di chi cade e ha bisogno di vera cura.
Troppe persone hanno timore di parlare, ma è arrivato il momento di dire le cose con chiarezza. Ciò che accade oggi è il frutto di percorsi imposti, mai realmente condivisi, affidati a figure come lo psicologo Enrico Parolari, che promuovono una visione priva di fondamento scientifico. Questo approccio genera valutazioni arbitrarie, che finiscono per danneggiare le persone coinvolte, le comunità ecclesiali e l’intero presbiterio. Non solo si tratta dei medesimi sistemi utilizzati a Bose, dove Parolari fece enormi danni con Anna Deodato, ma si ripetono le stesse dinamiche e le stesse persone. Gente che viene anche invitata ai Convegni del clero per pontificare innanzi ai presbiteri e dire: “Voi siete rigidi, voi non andate bene”. Voi qui, voi lì. Ma voi chi?
Ci siamo mai soffermati sui problemi che arrecano queste persone, alcune millantano anche il titolo di psicologhe, alla Chiesa e ai presbiteri che hanno “avuto in cura”? Il vescovo e i suoi collaboratori non possono permettersi di trattare quanto sta accadendo come una semplice “questione da gestire” o una “scocciatura da risolvere”. Sarebbe un grave errore. Serve invece uno sguardo profondo, capace di interrogarsi anche sullo stato d’animo dei presbiteri della diocesi, molti dei quali stanno vivendo questi anni con sincera sofferenza e smarrimento.
Quando un confratello viene accusato di crimini tanto gravi, è inevitabile che si crei sconcerto tra il clero. Ma questo sconcerto si inserisce in un clima già appesantito da un malessere più ampio: un presbiterio spesso insoddisfatto, sfiduciato, inascoltato. E proprio in un momento così delicato, diversi sacerdoti e laici sono rimasti colpiti — e in parte feriti — da alcune parole pronunciate dal vescovo durante recenti meditazioni liturgiche, che sembravano non tener conto della gravità e dell’urgenza della situazione attuale. Nessuno pretendeva che si affrontassero temi tanto delicati in modo diretto durante una liturgia, ma almeno ci si aspettava un cenno, un richiamo, un gesto che esprimesse empatia e riconoscesse la sofferenza collettiva.
Perché il presbiterio non viene convocato? Perché il pastore non sente la necessità di condividere con i suoi preti le problematiche?
E non si dica che “Silere non possum ha scritto”, “perché ha scritto” o “come ha scritto”. Queste considerazioni da sagrestia, evitiamole. Su queste pagine abbiamo più volte difeso le persone, soprattutto quando alcuni organi della stampa locale hanno accusato il vescovo di aver coperto presunti abusi che, come è stato chiarito sia dal tribunale lombardo sia da quello Flaminio, non sussistevano affatto. L’operato del vescovo fu pienamente conforme alla legge. La manipolazione, in quel caso, fu messa in atto da alcuni genitori mossi da un chiaro intento strumentale, nel tentativo di ottenere ciò a cui non avevano diritto. Silere non possum ha ristabilito la verità pubblicando integralmente gli atti, smascherando così la falsità delle accuse rivolte all’Arcivescovo di Milano, ai suoi collaboratori e al sacerdote ingiustamente accusato, la cui vita è stata irrimediabilmente segnata da calunnie infondate. Spesso dimentichiamo che, dietro queste vicende, ci sono persone reali, che soffrono nel silenzio e nell’incomprensione.
La sofferenza di un pastore è comprensibile, anzi, umanamente prevedibile. Perchè non condividerla? Questa sofferenza non può e non deve trasformarsi in rabbia o disprezzo verso chi è accusato. Non possiamo permetterci di reagire con la rabbia, come se l’obiettivo fosse solo “salvare la faccia” dell’istituzione, dimenticandoci di prenderci davvero cura delle persone. Ancora una volta sembra prevalere la preoccupazione per “ciò che dirà la gente”, piuttosto che l’ascolto autentico delle persone coinvolte — confratelli compresi.
Una domanda sorge spontanea e dolorosa: perché questi sacerdoti, accusati e spesso già emarginati, non vengono visitati? Perché il vescovo non trova il tempo di far loro visita in carcere? Non si tratta forse di un’opera di misericordia? Non ci siamo forse riempiti la bocca con queste parole durante l’Anno della Misericordia voluto da Papa Francesco? Visitare i carcerati non è un gesto opzionale, è un comandamento evangelico. Eppure, sembra che l’urgenza di tutelare l’immagine prevalga su quella, ben più evangelica, di farsi prossimo.
Perché il vescovo e la diocesi, o le varie realtà che paghiamo profumatamente, non iniziano a battere i pugni sui tavoli quando le suore vengono tirate giù dal letto alle 5 del mattino da parte della polizia e si fanno “azioni spettacolo” a favore delle carriere dei procuratori?Perché non ci si stupisce quando le notizie vengono pubblicate “ad orologeria” quando il pubblico ministero di turno le lascia trapelare alle orecchie assetate di quegli stessi giornalisti che ospitiamo nei palazzi? Perchè non ci si presenta alle porte di questi procuratori e si chiedono spiegazioni? Parliamo spesso di giustizia, ma abbiamo presente cos’è la Giustizia? O la confondiamo con gli show mediatici?
Oggi più che mai, abbiamo bisogno di una Chiesa che non si limiti a comunicare, ma che si comprometta. Che non si affretti a difendere sé stessa, ma si chini a fasciare le ferite. Che sappia piangere con chi piange, anche quando si tratta dei suoi figli più fragili e più scomodi. Non servono a nulla i comunicati nei quali si afferma: “Quanto riscontrato dalle autorità competenti dovrà giustamente essere valutato, ma pone il sacerdote in una posizione estremamente delicata.” Dietro questa apparente neutralità si cela, in realtà, la solita attitudine moralistica e paternalista: non si cerca di comprendere, accompagnare o guarire, ma si preferisce giudicare, etichettare e isolare.
Questo è l’atteggiamento tipico non di chi segue un codice deontologico, ma di chi si forma in alcune delle peggiori università pontificie, dove più che preparare professionisti si alimentano approcci confusi e ideologizzati. Spesso dimentichiamo che questi confratelli accusati, intrappolati in loop psicologici causati da solitudine profonda o eventi drammatici, se non fossero stati schiacciate dal timore del giudizio, avrebbero cercato aiuto. Invece, pur consapevoli del dolore che stavano vivendo – e del male che rischiavano di infliggere ad altri, del tutto innocenti – si sono chiusi in sé stessi, incapaci di chiedere aiuto anche perché mai adeguatamente formati per farlo. La responsabilità è anche di chi avrebbe dovuto fornirgli gli strumenti necessari durante il percorso formativo.
Oggi, anche davanti ad accuse false, fra il clero c’è un terrore diffuso della Chiesa, percepita non come madre, ma come matrigna pronta a giudicare. E c’è una domanda scomoda che nessuno vuole affrontare: quante volte le diocesi si sono costituite parte civile per difendere preti innocenti diffamati? Quanti sono quei casi in cui, dopo un’assoluzione piena, un sacerdote si è sentito dire dal proprio vescovo: “Non denunciare, lascia perdere, altrimenti…”? Il silenzio su queste vicende è assordante, e rivela una mancanza strutturale di giustizia e di carità.
È proprio questo approccio — confuso, giudicante, opaco, talvolta persino crudele — ad averci condotti all’attuale paralisi, a un’impasse che sembra sempre più difficile superare. E sono proprio coloro che si affrettano a chiudersi nei propri uffici — spesso lontani dalla realtà concreta delle parrocchie— a redigere comunicati che non mirano a curare le ferite, né di chi le ha inflitte né di chi le ha subite, ma solo a dichiarare: “noi non c’entriamo”.
Un nuovo modo, in fondo, di lavarsene le mani. Un nuovo Pilato.
d.T.G. e p.M.P.
Silere non possum