In the Pharmakon column, Silere non possum addresses the issue of loneliness in the life of a priest.
Don Marco è un sacerdote di 38 anni, lavora come viceparroco in una parrocchia di circa 20000 fedeli nelle periferie in una grande città, insegna anche religione alla scuola media. È estate, il parroco è nel suo turno di ferie e don Marco si trova da solo in parrocchia. Ad agosto la scuola è chiusa e, perché molti dei parrocchiani sono fuori città durante il periodo estivo, oltre a non esserci attività particolari in parrocchia, le funzioni liturgiche si riducono. Un giorno, di pomeriggio, don Marco si ritrova ad essere inquieto, gli spazi vuoti in agenda e il silenzio in canonica, pare, siano motivo di spaesamento. All’improvviso, in mezzo all’apparente e incomprensibile vuoto, arriva una chiamata:
don Marco: Pronto?
Alfonsina: Salve, don Marco! Sono Alfonsina.
don Marco: Ciao! Tutto bene?
Alfonsina: Insomma… Fa caldo, don. Non posso più venire in chiesa per il rosario e la Messa. Faccio fatica a camminare… Sa, 88 anni non sono mica pochi. Nessuno mi viene mai a trovare…
Per altri 7 minuti la chiamata si prolunga. Alfonsina voleva semplicemente condividere un po’ di emozioni e ha trovato in don Marco un ascoltatore gentile.
Quante opportunità perse di condivisione! E, soprattutto, quante occasioni perse di solitudine feconda! Nell’articolo precedente, dedicato all’amicizia, ricordavamo anche come l’esperienza della solitudine può essere (e deve essere!) una scuola di crescita e, paradossalmente, d’incontro.
La solitudine è un luogo privilegiato per la formazione. In essa cresce la capacità di vivere in intimità – con se stesso, con Dio e con gli altri – e, pertanto, si sviluppa anche la capacità di relazioni autentiche. Ci sono due elementi caratteristici dell’identità del consacrato che, nella solitudine, possono essere misurati e sviluppati per un serio cammino di discernimento e di accompagnamento vocazionale. Da un lato, l’uomo in solitudine impara ad essere libero, perché, entrando in contatto con se stesso, si esercita nello stare in piedi da solo e, di conseguenza, può essere più vigile e attento. Dall’altro lato questa esperienza favorisce l’intimità con Dio, perché in essa l’uomo può sperimentare come l’amicizia con Dio possa essere bella e appagante. Gesù raccomanda ai suoi discepoli di raccogliersi per disporsi alla preghiera, Lui stesso amava ritirarsi in disparte, in solitudine, per pregare (cf. Lc 5,15-16; 11,1; 22,41).
Per continuare a leggere iscriviti