L’estate è tempo di cambiamenti e in molte diocesi si corre per poter  fare i cambiamenti a settembre. E i grest, i campi estivi e le vacanze diventano l’occasione perfetta per fare un bel po’ di chiacchiericcio.

Comunità logorate e sacerdoti disorientati

Il clima all’interno delle comunità ecclesiali è ormai profondamente logorato. Papa Leone XIV, uomo della Provvidenza donato alla Chiesa per recuperare l’unità, non smette di richiamare tutti a un cammino comune: non un’uniformità sterile, ma un’unità che sappia valorizzare la diversità come dono e non come problema.

Eppure, sempre più spesso sacerdoti e seminaristi si trovano a vivere in comunità polarizzate, in cui l’accoglienza dell’altro è condizionata dal pregiudizio. Le categorie che noi stessi abbiamo consegnato ai laici (tradizionalisti, modernisti, aperti, chiusi, conservatori, progressisti...) sono diventate griglie di giudizio assoluto, incapaci di riconoscere l’unica cosa che conta: Cristo presente nel suo ministro.

Un prete non è il suo passato, il suo carattere, il suo stile. Un prete è un uomo inviato, e porta Cristo, non sé stesso. Ma questo è difficile da comprendere in un contesto in cui non si crede più in Dio: si giudica tutto con criteri umani. E bisogna prendere consapevolezza del fatto che molti battezzati e ordinati non credono più in Dio.

Si scambia la timidezza per freddezza, la fermezza per arroganza, la povertà di parole per povertà spirituale. E il dramma più grande è che i vescovi non insegnano più al popolo di Dio come guardare con fede, ma preferiscono accusare i loro preti, in pubblico e in privato, alimentando il sospetto.

Il Grande Inquisitore: quando la Chiesa teme la libertà

Questo clima di codardia ecclesiale è stato profeticamente descritto da Dostoevskij ne Il Grande Inquisitore, quando l’anziano prelato di Siviglia accusa Gesù di aver lasciato al popolo un dono insopportabile: la libertà. “Abbiamo corretto la tua opera”, dice l’Inquisitore. “Tu hai promesso pane dal Cielo, ma noi daremo pane terreno. Tu hai chiesto libertà, noi offriremo sicurezza.”

“Alla fine deporranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: Rendeteci vostri schiavi, ma sfamateci.” Questa è l’immagine terribile della Chiesa che si preoccupa di non perdere il consenso: preferisce l’applauso alla verità, il compromesso al martirio, la neutralità al profetismo. Ma in questo modo non difende più nessuno, e soprattutto non difende Cristo. Non si tratta tanto di malvagità quanto di vigliaccheria. È questa la vera radice del problema, e Michail Bulgakov lo esprime magistralmente ne Il Maestro e Margherita, quando dipinge un Ponzio Pilato tutt’altro che crudele: è un uomo debole, intimorito. Pilato non vuole condannare Gesù, lo riconosce innocente. Ma ha paura: teme il giudizio del popolo, la reazione dei sommi sacerdoti, il sospetto di Cesare. E così si lava le mani. Bulgakov non ha dubbi: “La codardia è il più terribile dei vizi.”

Il rischio della codardia episcopale

Oggi alcuni vescovi non sono malvagi. Ma sono codardi. Non hanno il coraggio di difendere i loro preti, tacciono sulle problematiche liturgiche, sorvolano sulla dottrina, non alzano mai la voce contro chi disprezza la Chiesa, ma si affrettano a colpire proprio quei sacerdoti che, con silenziosa fedeltà, la servono ogni giorno. Parlano ovunque di sinodalità, ma poi guidano le diocesi in modo autoritario e solitario, senza condividere nemmeno le scelte più basilari con i propri sacerdoti.

Basti pensare al modo in cui vengono scelti i parroci. In un’epoca in cui si predicano sinodalità e corresponsabilità, le nomine vengono decise in base a chi è disposto a dire di sì, non secondo un reale discernimento pastorale. Ore di consigli, riunioni, incontri, che si dissolvono in una telefonata improvvisa: il prete viene convocato e gli si propone una parrocchia. Ma quella scelta non nasce da una lettura spirituale e umana dei suoi talenti o delle esigenze della comunità, bensì dalla disponibilità – o meno – del prete che è passato prima in udienza. Se accetta, il piano si realizza. Se rifiuta, l’intero schema viene rimescolato. Così accade che un sacerdote, previsto per una parrocchia nel sud della diocesi, si ritrovi sbalzato nel nord, non perché lì serva di più, ma per “far quadrare i conti”.

E chi paga il prezzo di tutto questo? Sempre gli stessi: i sacerdoti obbedienti, quelli che dicono sì senza discutere. Ma è davvero questo il modo di governare una diocesi? A che servono allora gli infiniti anni di seminario, i percorsi del clero giovane, gli incontri con il presbiterio, i colloqui con i vicari e i vescovi, le gite e le giornate di fraternità, se poi le decisioni si riducono a una logica da “tappa buchi”? Questo modo di procedere scontenta i preti, svuota le comunità, e crea divisione.

Una chiesa profetica, non populista

Finché nella Chiesa continueremo a usare etichette come “tradizionalista” o “progressista”, resteremo prigionieri di un linguaggio mondano, che non ci appartiene. Lo abbiamo seminato noi e ora ci stupiamo che i laici lo usino per giudicarci. E mentre i “finti liturgisti boomer” urlano – come Andrea Grillo – e offendono chi non rientra ne i loro schemi malati, i pastori tacciono. E il gregge si smarrisce.

Forse è arrivato davvero il momento di scegliere: vogliamo difendere la Verità o continuare a inseguire un fragile prestigio sociale? Perché è facile predicare semplicità, invocare la rottamazione degli ori e degli orpelli, ammonire sull’umiltà evangelica… Ma poi, quando si tratta di ottenere i primi posti, rivendicare l’ultima parola, esercitare il potere decisionale, guai a chi osa mettere in discussione l’autorità.

La Chiesa oggi vuole essere profetica o populista? Vuole proteggere i santi o fare spazio alle cooperative e alle ONG che svuotano i tabernacoli per trasformare le chiese in mense?

O torniamo a dire la verità – anche se costa – oppure non ci sarà unità, né futuro. Cristo non ha fondato una Chiesa per piacere al mondo, ma per salvarlo.

d.L.S.
Silere non possum