A monk reflects on some fundamental issues in the Church today.

Seconda parte

La Chiesa è in mano a Cristo. Ma questo non le impedisce di passare periodi difficili, confusi. Qualche volte, sembra dar la mano a Barabba. Dalla piccola prospettiva che mi è dato di vivere azzardo alcune riflessioni sulla situazione ecclesiale senza alcuna pretesa. Sono un monaco, pertanto posso permettermi di pregare e pensare con una certa calma, e di ascoltare chi viene a trovarmi nel parlatorio del monastero. Molti condividono quello che sto per dire, ma ancor più numerosi sono coloro che hanno timore di parlarne. E allora, per dare voce anche a loro stendo queste note, nella pace e senza acredine verso alcuno. Accusarsi a vicenda non serve a nulla. Sappiamo bene che il discredito, calunnia, la detrazione prima ancora che essere peccati, sono frutto dell’ignoranza (teologica). Qui allora si riflette su situazioni e non sulle singole persone.

Divido questa riflessione in due sezioni che corrisponderanno a due interventi: ragion pura e ragion pratica.

Ragion pura: presupposti mentali

Ogni azione parte da una convinzione. Quel che accade oggi nella Chiesa – di buono e di meno buono – ha dei presupposti precisi. Proviamo a vederne qualcuno. Mi scuso per la semplificazione eccessiva che un articolo impone.

Il Concilio Vaticano II ha rimesso in mano la Bibbia ai cristiani. Mentre i pastori facevano questa operazione, i teologi e i biblisti insegnavano che la Scrittura va presa con le pinze. Si badi bene, non ‘interpretata’ (questo si è sempre fatto da duemila anni per non cadere nel fondamentalismo), ma selezionata: alcune cose sono valide anche oggi e sono il succo della fede, altre cose vanno relativizzate perché sono frutto della cultura del tempo. Una ispirazione divina intermittente, dunque. E non sto parlando solo dell’Antico Testamento! Si è data la Bibbia in mano a tutti dopo averla svuotata di autorità? Chissà… Se tutto è ‘cultura’ allora tutto è relativo. Cosa va ritenuto? Quello che accarezza le orecchie: amore, amore, tanto amore. Dobbiamo diventare fondamentalisti? Certo che no. La Scrittura va interpretata, ma è qui che si gioca la differenza: alla luce della Tradizione e non del mainstream. E va letta tutta, accettandone i paradossi e le tensioni che aiutano a non semplificare e ad accendere il cervello. Si parla di misericordia? Si parli anche di giustizia! Si parla di perdono? Si dica anche che c’è la possibilità di perdersi per sempre! Basta un poco di onestà intellettuale. Spesso le cose che si tacciono sono proprio quelle che ci salverebbero. Piccola appendice: la letteratura paolina nella catechesi e nella predicazione è quasi del tutto assente. Paolo non si presta alla riduzione della vita cristiana a buonismo (per questo la teologia liberale non l’ha mai avuto in simpatia)! La ‘parola della Croce’ non crea consenso. Maneggiare Paolo richiede la fatica del pensare (che orrore!!!).

“quia vero de mundo non estis” Io, 15, 18 

La Chiesa è nel mondo, ma non del mondo: è luce del mondo, ma il mondo spesso le fa da stoppino. È normale che sia così, la storia ce lo insegna. Nessuno scandalo. La Chiesa oscilla sempre tra l’incarnazionismo (calarsi nel mondo) e l’escatologismo (differenziarsi dal mondo). Come scegliere? In base a cosa orientarsi? Estraniarsi e confondersi? Ebbene i santi servono proprio a questo. Nella confusione – non sembri una cosa banale – bisogna rileggere le biografie dei santi. Si ripassi la vita di fratel Biaggio Conte di Palermo, della beata Itala Mela o del beato Carlo Acutis… e si saprà subito come comportarsi; si leggano bene le Memorie dell’Oratorio di San Giovanni Bosco e ci si renderà conto immediatamente di come si lavora nel mondo tenendo a bada la mondanità. Il da farsi si impara dai santi e non solo dalle cattedre di teologia pastorale. Canonizzazioni e beatificazioni non sono uno show, ma una occasione in cui si dovrebbe imparare a discernere circa la pastorale della Chiesa.

“Vae autem vobis, scribae et pharisaei hypocritae, quia clauditis regnum caelorum ante homines! Vos enim non intratis nec introeuntes sinitis intrare” Mt 23, 13

Oggi cosa vuole il mondo occidentale? Che tutti si pieghino all’idolatria dei diritti civili senza possibilità di analisi critica; diritti civili decisi sempre da una parte sola. La Chiesa – si dice – non può osare di ostacolare il cammino dei diritti che sorgono dal singolo (e non dei popoli, si badi bene!) ad autodeterminarsi. Tutto bello, ma erroneo. Perché le nostre democrazie si basano sul sapiente equilibrio tra diritti civili e diritti sociali, che non sempre possono andare d’accordo. E quando confliggono cosa succede? Che oggi si scelgono a testa bassa i diritti civili. E se non lo si fa via alla caccia alle streghe di chi accusa la Chiesa di aver fatto la caccia alle streghe: la nuova eresia è la discriminazione, etichetta usata ad hoc per i roghi mediatici. Perciò il diritto alla transizione sessuale è più importante del diritto al lavoro; il diritto all’accesso alla maternità surrogata è prevalente rispetto al diritto del bambino… e via dicendo. Si accolgono gli immigrati (giustamente) che hanno fame di diritti sociali per poi disprezzarli in quanto le loro culture di origine sono prevalentemente contrarie alle nostre rivendicazioni. Bella ipocrisia: si accolgono i corpi, ma non le anime! La Chiesa in Italia dovrà scegliere. Non si può trescare con tutti, cercando di mettere insieme cose inconciliabili. Per un cattolico la dottrina sociale non è opzionale.

La prevalenza della pastorale sulla dottrina è un altro presupposto erroneo. La scelta non è tra teoria e pratica, come in filosofia. La fede non è una filosofia, anche se può presupporla e addirittura alimentarla. Quando si dice che la pastorale non deve essere condizionata dai dogmi si esprime una colossale castroneria (oltre che mostrare una certa ignoranza). Perché anche la pastorale è dogma, ossia dottrina incarnata. Una pastorale senza Verità (propinata con la scusa dell’ascolto!) cadrà in balia dell’ideologia di turno… diventando rigida e granitica. Già questa cosa sta succedendo nella Chiesa: si può dissentire sulla dottrina millenaria, ma si deve obbedire ciecamente agli indirizzi pastorali, adeguarsi senza possibilità di fare altrimenti. Altro che rigidità della dogmatica. Chi abbia solo studiato un poco sul serio e a lungo sa molto bene che i pronunciamenti dogmatici della Chiesa sono conseguenza di problematiche legate alla fede e alla prassi del popolo di Dio, e non esercitazioni accademiche. San Gregorio Magno è illuminante sul punto. Donare la Verità che libera e sostenere ognuno nella sua capacità di aprirsi ad essa secondo la propria condizione: questa è la pastorale. Mosè, il pastore, ha condotto alla terra promessa il popolo eletto, stigmatizzando paure e idolatrie, intercedendo e facendosi modello, non certo dispensando Israele dalla fedeltà alla Parola. Altro che prassi contrapposta alla teoria! Si dica chiaro: il fare cristiano non è del pragmatismo liberista della filosofia inglese. Per un cattolico non è mai vero che “è vero solamente ciò che è utile”.

“Accipite, comedite: hoc est corpus meum” Mt 26, 26

La natura sacramentale della Chiesa oggi sembra totalmente fraintesa a favore della funzione. Cosa è un sacramento? Una porta tra il divino e l’umano. Dio viene a noi nel sacramento e noi troviamo per grazia una strada per essere in Lui. Ma il divino comunica con l’umano solo tramite segni: l’acqua, il pane, l’olio, ecc. il segno che oggi utilizzo nel rito non lo decide la cultura, ma la Scrittura. L’Eucaristia si celebra con pane e vino. È il segno che ha scelto Gesù. Il segno del suo amore fino al sacrificio. Non posso sostituirlo con un caffè servito su un vassoietto con dei biscotti! Questo può esprimere l’amore del marito che porta la colazione a letto alla moglie (se ancora qualcuno lo fa), ma non l’amore dell’Agnello immolato. E fin qui è tutto chiaro. Passo avanti. Se la Chiesa è sacramento allora rappresenta Cristo e non semplicemente “fa le cose che faceva Gesù”. Questa distinzione tra rappresentanza e funzione è fondamentale. Tanti fanno le cose che faceva Gesù, ma non lo rappresentano. Anche Medici senza frontiere fa cose bellissime che compiva anche Cristo, ma non lo rappresenta. Per ‘fare’ non bisogna convertirsi, per ‘rappresentare’ sì. Il carisma del rappresentare donato all’ordinazione richiede per natura la conformazione. Pensiamo alle conseguenze di ciò sul presbiterato: se è una funzione lo possono esercitare tutti, anche le donne, se è rappresentazione sacramentale di Cristo sacerdote e partecipazione al ministero degli apostoli (e ricordiamo che il ministro presiede in persona Christi), assolutamente no, poiché chi rappresenta deve cercare di incarnare più da vicino il segno sacramentale! In questo caso, lo si voglia o no, il segno è maschile! Non è una discriminazione, come non lo è la femminilità della Madre del Signore. Da tale distinzione si evince anche la diversa postura che si assume circa il celibato sacerdotale: se il prete è funzione non si vede perché non possa sposarsi.

“Erat autem tunica inconsutilis, desuper contexta per totum” Io 19, 23

La coordinazione tra unità e sinodalità. Noi professiamo la Chiesa una. È la prima delle cosiddette ‘note’ della Chiesa, la più importante. Una è la tunica di Cristo, indivisibile. L’impegno di tutti deve essere per l’unità tra le Chiese. Curioso: più si oscura l’ecumenismo più emerge la sinodalità come rimedio interno. Qualcosa non torna… oggi siamo al punto più basso del dialogo ecumenico dal dopo Concilio, e le spinte a democraticizzare la Chiesa cattolica sono esasperanti e per nulla fondate nella Scrittura! Ci sarà una relazione tra i due fenomeni? La Chiesa è una per comunione di battesimo e di dottrina. Invece abbiamo una cattolicità frammentata in piccole ideologie di parte. La sinodalità è sana solamente all’interno di una Chiesa unita nella comune fede. Altrimenti è uno squallido parlamentino. Ciò significa che un processo sinodale può far bene alla Chiesa solo se nello stesso tempo si rafforza l’unità tra pastori e gregge, tra stati di vita, tra componenti ecclesiali. Stesso discorso per quel che riguarda la collegialità episcopale: nel tempo in cui il centralismo papale si è ispessito, che fine ha fatto? Un sinodo andava veramente convocato: quello sulla collegialità e il ruolo del singolo vescovo. Gli ordini religiosi che da secoli vivono la sinodalità nei capitoli; nell’ordine cistercense il capitolo generale vede la partecipazione sia di membri donne che uomini… ma l’abate generale eletto è sempre un uomo insignito della potestà derivante dall’ordine sacro, e a nessun capitolare viene in mente di cambiare le carte costitutive e fondanti stilate dai primi Padri. Forse, invece che lasciare il sinodo agli ideologi (che non hanno mai presieduto come parroci nemmeno un consiglio pastorale), una dritta a chi la sinodalità la vive da secoli non sarebbe stato male chiederla.

«Dixit ergo Iesus ad Duodecim: “ Numquid et vos vultis abire? ”» Io 6, 67 

Un altro inganno mentale che può inficiare il discernimento ecclesiale è dato dalla smania che nasce dal vedere le chiese che si svuotano. La secolarizzazione è impietosa, certo. Non sono in grado di fare analisi sociologico-religiose. È sbagliato però pensare che sia tutta colpa nostra. Don Primo Mazzolari scriveva che «la Chiesa non esiste per riempire le chiese». Non siamo un’azienda o una pagina Instagram che deve aumentare i propri like. Gesù è stato molto chiaro a Cafarnao: «anche voi volete andarvene?». La Chiesa non esiste per ricevere consensi, ed è meglio essere pochi che insignificanti. E invece oggi siamo preoccupati di far stare dentro tutti, ad ogni costo. E così ci teniamo strette persone che non si fanno sfiorare nemmeno lontanamente dalle domande della fede… però ci aiutano a tenere in piedi la baracca. L’associazionismo cattolico in questo è formidabile: ci sono realtà che sbandierano approvazioni ecclesiastiche in cui i dirigenti e gli animatori – tranne rare eccezioni – non si confessano da anni. Bisogna mandarli via? No. Bisogna metterli davanti a delle scelte? Sì. La spolverata di cristianesimo non serve più a nulla. Un cristiano che non vive la ‘differenza’ rispetto al mondo, condanna sé stesso e la comunità all’estinzione. È come il cane dell’ortolano: non mangia l’insalata, la calpesta con le zampe, e non la fa mangiare agli altri.

«Honora patrem tuum et matrem tuam» Ex 20, 12

E qui tocchiamo un altro punto caldo: l’autolesionismo ideologico. Ci siamo così assuefatti alla musica che suonano i giornali che gli cantiamo appresso imbambolati. È il karaoke della stupidità. Da anni ci dicono che la Chiesa è una discarica, i preti dei ladri carrieristi, il Vaticano un covo di briganti. Se da prete dici queste cose sei anche alla moda! Poveri fessi che siamo. Il mondo odia i sensi di colpa, però li vuole scaricare su di noi. La fierezza di essere cattolici sta scomparendo, come se vivessimo in una società di santi e immacolati. Il mondo l’esame di coscienza lo fa solo alla Chiesa cattolica, mai a sé stesso. Quando ci sveglieremo? Come mai all’onore delle cronache assurgono solo, e ripeto solo, gli scandali dei cattolici? Ovvio: perché gli altri son tutti santi! Siamo diventati veramente “la spazzatura del mondo” – come scriveva Paolo ai Corinti – ma non perché ci affatichiamo per il Vangelo, bensì perché strizziamo l’occhio al politicamente corretto. Una parola diversa dalla Chiesa sulla Chiesa non si sente più. Ma come si può pretendere di essere credibili così? “Onora il padre e la madre” è comandamento che vale anche per noi cattolici nei confronti della Chiesa! È la dignità che muove alla santità, non l’autolesionismo. E ciò vale sia per i singoli che per le comunità.

Ultima riflessione: il martirio esiste ancora? Non se ne parla, anche se l’unica forma completa di conformazione a Cristo è proprio questa. È questo lo stato di vita per antonomasia, alla quale tutti devono tendere: sposati, monaci, laici, preti, vescovi, suore…. Non c’è niente da fare: la vita cristiana costa. La Croce tocca tutti. Ma pensiamo, nemmeno il Concilio Vaticano II – come sottolinea il teologo benedettino Meiattini – ha messo a tema lo spessore teologico e normativo del martirio. Gravissima carenza. Eppure in quelli anni i cristiani oltre la cortina di ferro morivano per la fede a migliaia! Sono un sostenitore del Concilio da sempre (di quello che si evince dai documenti, e non dal favoleggiato e manipolabile ‘spirito del Concilio’!) … Ma qui qualcosa non è andato bene! Una dimenticanza imperdonabile. Morire per Cristo oggi sa di fanatismo o di una fatale conseguenza del proselitismo. Il cristiano non muore per la fede, ma si limita a dialogare. Nel tempo del meticciato il martirio non ha più alcun senso. Esso fa il paio con l’identità, la certezza, la fedeltà. Ma il cattolico di oggi è condannato ad essere fluido, social, consenziente. La Lettera a Diogneto, però, va in un’altra direzione: non è un caso che non sia mai citata dai nostri pastori, nonostante la cogente attualità. Senza l’ideale del martirio la vita cristiana è una filosofia che non interessa più a nessuno. Al più si può morire per l’impegno sociale. Solo i ‘rigidi’ muoiono per Vangelo!

P.P.

Silere non possum

Seconda parte