Roma - Oggi si fa un gran parlare del bisogno che i vescovi siano "vicini alla gente", "poveri", "semplici", "francescani". Parole vuote. Frasi fatte buone per la stampa e per chi ha bisogno di proiettare un'immagine di sé. E alcuni vescovi lo hanno capito benissimo. Ma il problema non è certo questo.

Il vero dramma dell’episcopato contemporaneo è l’apatia.
Una cecità verso la realtà concreta, un’incapacità imbarazzante di comprendere le esigenze del clero, e, soprattutto, una desolante mancanza di volontà nel mettere a frutto i loro talenti. Il problema non è se un vescovo porti la croce pettorale d’oro, d’argento o se la nasconda nel taschino; se indossi quattro metri di pizzo o un camice in terital. Queste sono questioni da gossip ecclesiale, interessanti solo per qualche laico represso o prete annoiato.

Abbiamo avuto vescovi che indossavano mitrie alte sessanta centimetri ma che, nel frattempo, conoscevano il proprio clero, gli volevano bene e ne comprendevano le fatiche. Erano capaci di governare con fermezza ma senza abusare della propria autorità. Oggi, queste figure sono praticamente scomparse. Il dramma delle nuove nomine episcopali è ormai evidente. Papa Francesco ha scelto figure giovani, spesso con percorsi personali e professionali quantomeno discutibili, affidando loro diocesi che vengono guidate ora con uno stile manipolatorio e autocratico, ora con un atteggiamento inetto e disinteressato.

Ci sono vescovi che, durante gli incontri con il clero, parlano di 'grandi riforme', annunciano nomine e cambiamenti imminenti, salvo poi smentire tutto il giorno dopo. Non è confusione: è calcolo. Osservano le reazioni, misurano le mosse, studiano chi si espone. È un gioco manipolatorio, pensato per coglierti di sorpresa. Perché, in fondo, non devi avere un rapporto vivo con i fedeli, non devi essere stimato né amato dalla tua comunità: se lo sei, loro si sentono minacciati. È manipolazione, né più né meno. In una Chiesa che si riempie la bocca della parola "abusi", declinata quasi sempre e solo in riferimento ai minori, ci si guarda bene dal parlare degli abusi di potere e d’autorità. Che sono quotidiani.

La maggior parte delle nomine episcopali successive al 2013 ha portato all’insediamento di figure giovani che si rapportano al proprio presbiterio con le stesse dinamiche distorte vissute nei seminari: 'chi è mio nemico, chi è mio amico', 'chi parla bene di me e chi parla male', 'chi posso sottomettere e chi no', 'chi rimpiange il mio predecessore e chi invece non lo fa'. Un simile approccio è già grave in un sacerdote, segno evidente di una formazione profondamente carente e malsana; è però del tutto inaccettabile in un Vescovo, che dovrebbe essere il primo a costruire comunione, non a distruggerla.

Ancor più imbarazzante è il modo con cui molti di questi giovani vescovi trattano i loro predecessori:
come intralci, come fastidi da ignorare o peggio ancora da umiliare, mancandogli apertamente di rispetto. Un comportamento indegno, che la dice lunga sul livello umano ed ecclesiale di certi profili oggi promossi all’episcopato.

Divide et impera

Ci sono vescovi che si atteggiano ad "amiconi" con i propri sacerdoti, salvo poi trascorrere il tempo a parlar male dell’uno con l’altro, rivelando fatti personali, facendo considerazioni velenose e seminando giudizi che alimentano divisioni all’interno del presbiterio. Mettono i preti l’uno contro l’altro, coltivando il sospetto e la sfiducia. Ci sono poi quelli che raccolgono pettegolezzi, maldicenze, calunnie e li usano come arma contro i propri sacerdoti, pur sapendo che sono falsità mai verificate. Un metodo che non è affatto nuovo e che ricalca fedelmente lo stile di chi li ha nominati: anche lui ha governato la Chiesa seguendo la logica del sospetto e dello scontro, dividendo per poi poter dominare con apparente serenità. Come dicevano i latini: divide et impera.

Di fronte al popolo si presentano come i 'vescovi del clergyman a maniche corte e della croce nel taschino': operazioni di marketing, nulla più. Una prossimità costruita ad arte, mentre nella realtà governano con modi da despoti, promuovendo amici fidati e laici compiacenti che, in alcuni casi, portano addirittura sul lastrico intere diocesi. Tutto è puntato su una pace apparente, su un equilibrio di facciata. E quando un collaboratore prova a segnalare criticità — corruzione, dinamiche logore, favoritismi, malcontento del clero — la loro unica preoccupazione è che la cosa non trapeli, che nessuno si agiti troppo. L'importante è mantenere l'immagine. Ma non era forse proprio questa ipocrisia ciò che più faceva indignare Gesù di Nazareth nei farisei?

Il caso Palmieri

Emblematico, in questo senso, il caso dell’ex vicegerente della Diocesi di Roma, Gianpiero Palmieri, oggi Arcivescovo-Vescovo di San Benedetto del Tronto-Ripatransone-Montalto e Ascoli Piceno. Un titolo “importante” (sic!), perché – pur silurato dal Vicariato di Roma a causa di contrasti con il segretario generale del Vicariato – Papa Francesco gli ha lasciato quello di Arcivescovo.

Palmieri ama apparire sorridente, pacato, sereno. Ma quel sorriso ostentato, con tutti i denti in vista, nasconde una emotività che è già emersa più volte con laici e clero. Anche la voce conciliante, quella che dovrebbe tranquillizzare, finisce col far addormentare. Ma quando qualcosa non gli torna, non perde tempo nel ragionare e parte con le sue considerazioni cariche di ira. E mentre predica pace, non rinuncia mai alle frecciatine verso quelli che definisce "nemici", anche quando nessuno lo ha mai trattato da tale.

È paradossale: è stato estromesso proprio dal sistema che ha logorato la Chiesa per dodici anni, eppure continua a colpire chi ne ha raccontato la verità. Ma Palmieri è un uomo fatto di luci e ombre. E, come spesso accade, la sua nomina episcopale non è frutto di meriti ma di relazioni da ricambiare. Le voci libere che osano raccontare anche solo le sue contraddizioni non gli piacciono: lui, come tanti altri, vuole fedeltà cieca. Non accetta la complessità della realtà. O sei con lui, o sei contro di lui. O è bianco o è nero. Il problema, però, non è la sua persona in sé, ma il suo modo di governare: incapace di costruire relazioni sane con il clero e con le realtà laicali. Palmieri ragiona per schemi ideologici e non ha un bagaglio culturale solido. È uno dei tanti vescovi che preferisce circondarsi di fedelissimi piuttosto che di uomini pensanti. Finendo così per restare da solo.

I figli di Rupnik a casa De Donatis

Silere non possum aveva già denunciato la questione di padre Ivan Bresciani, accolto in diocesi da Palmieri. Bresciani aveva lasciato l’Ordine dei Gesuiti nel pieno dramma della vicenda Rupnik. Non parliamo qui degli abusi – per i quali il processo ancora non si celebra per volontà esplicita di Bergoglio – ma delle gravi disobbedienze. Padre Marco Ivan Rupnik aveva ricevuto restrizioni ministeriali dai gesuiti. Padre Ivan Bresciani, che lo guidava nella comunità del Centro Aletti, non solo non ha mai fatto nulla per farle rispettare, ma ha continuato a coprirlo.

Un prete che ha sempre fatto quello che voleva, fuori da ogni autorità. Quando ha lasciato l’Ordine per protesta insieme a Rupnik, è stato accolto da Palmieri su pressione di Angelo De Donatis. E se già questo fatto è inquietante, ancor più lo è la decisione dell’Arcivescovo-Vescovo di Ascoli Piceno di obbligare il clero a farsi “catechizzare” da Ivan Bresciani. Come noto, quando un sacerdote chiede l’incardinazione in una diocesi, il vescovo può concederla ad experimentum. Ma proporre quest’uomo come modello, farlo predicare nei ritiri, presentarlo come guida spirituale è un insulto al buon senso e – osiamo dirlo – grida vendetta al cospetto di Dio.

È così che funziona oggi nella Chiesa: si offrono come modelli figure che non dovrebbero nemmeno ricoprire un ruolo pubblico, mentre si marginalizzano sacerdoti che hanno sempre vissuto nell’obbedienza e che si sono formati seriamente, proprio per acquisire gli strumenti necessari ad accompagnare i loro confratelli. Perché dietro ci sono potere, denaro, favori da ripagare, nomine da restituire. E così, il corpo ecclesiale è diventato ipocrita e incredibilmente poco credibile.

Giubileo dei sacerdoti, ritiro dei laici

Per il Giubileo dei sacerdoti (26-27 giugno, Roma), Palmieri ha disposto che la meditazione per i suoi preti sia tenuta proprio da padre Ivan Bresciani. I sacerdoti potranno soggiornare presso la casa di spiritualità “Maria Consolatrice” a Santa Severa (RM), struttura legata – guarda caso – al Centro Aletti. Ovviamente, il costo dell’alloggio andrà a beneficio di questa realtà, che "ha tanto bisogno" dei soldi dei preti marchigiani.

Non finisce qui. Ad agosto, a Ripatransone, Palmieri ha previsto un ritiro per i laici guidato, ancora una volta, da Bresciani.

Le domande inevase

E allora la domanda, sempre la stessa, resta sul tavolo: quale modello di sacerdozio si sta proponendo? E quale modello di cristiano? Quello dell’obbedienza cieca, imposta con arroganza a chi è più debole e crede ancora nell'autorità del vescovo come padre e pastore?

Perché oggi funziona così: se sei debole, i vescovi ti schiacciano, abusano della loro autorità, manipolano la tua coscienza e giocano sul tuo silenzio. Se sei forte, diventano agnellini, ti trattano con reverenza. È questo che ci ha insegnato Nostro Signore? Bisogna battere i pugni per farsi rispettare?

A San Benedetto del Tronto e ad Ascoli Piceno molti sacerdoti sono stanchi.
Stanchi di vedere modelli improponibili proposti con insistenza. Il clero delle diocesi di Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto - Ripatransone – Montalto non hanno “elementi” validi da poter valorizzare per queste occasioni? I preti sono stanchi di una Chiesa che chiede obbedienza a senso unico. Stanchi di dover chinare il capo davanti a chi, forse, sarebbe il primo a dover fare un serio cammino di discernimento e chiedere perdono per ciò che ha permesso, nascosto, coperto.


d.L.B. 
Silere non possum